_CANZONI DIETRO LE SBARRE

CANZONI DIETRO LE SBARRE

Nel dicembre del 2015 mi capitò di fare uno dei concerti più importanti della mia vita, in una Casa di reclusione nel Sarcidano, una struttura carceraria cosiddetta aperta (un evidente ossimoro).
Studiai una scaletta breve e selezionai attentamente le canzoni, con enorme timore di ledere la sensibilità del pubblico, infliggendomi una forma di autocensura: la parola più inopportuna, che cercai di evitare, era libertà.
Ritenni di dover farmi accompagnare da qualche amico, per poter dividere il peso morale dell’evento e pure quello della strumentazione musicale.
Il personale della struttura ci accolse con gentilezza e, dopo le operazioni di riconoscimento, ci accompagnò in una grande sala dove si sarebbe tenuto il concerto. Appesi alle pareti c’erano disegni e lavori eseguiti dai carcerati, il tema era l’opera di Fabrizio De André.
La responsabile educativa fu molto cordiale e mi confessò di aver accettato la mia proposta quasi per sfinimento, vista la mia insistenza nel voler suonare a tutti i costi.
Se non erro, la popolazione della Casa era composta da detenuti, solo maschi, che, pur avendo scontato la loro pena, erano sottoposti a tale misura di sicurezza perché ritenuti socialmente pericolosi. La maggioranza era formata da detenuti con fine pena entro i quattro anni, ma ce ne erano pure alcuni con condanne inferiori, così ci venne detto.
Scaricammo l’attrezzatura, montammo e provammo i suoni, poi il vociare festoso fuori dalla sala indicò che il pubblico era arrivato, scortato da un po’ di agenti penitenziari.
L’ambiente era amaramente allegro. Prima di iniziare, uscimmo a fumare una sigaretta e scambiammo qualche parola con qualcuno.
Poi, la responsabile presentò l’evento, che accolsero con grandi applausi e urla “liberatorie”.
Tutto andò bene: riuscii a gestire le emozioni e a sopportare il giustificabile rumore di fondo e le voci.
Notai un qualche interesse, ma l’attenzione calò dopo cinque pezzi, intervallati da brevissime letture. D’altra parte, l’educatrice me lo disse che, in quelle situazioni, era difficile che restassero buoni e zitti, come d’altronde è giusto che sia.
Smisi con le canzoni, chiudendo con “Pianura di sale”, quando mi resi conto che sarebbe stato più utile regalar loro qualche minuto di socialità, di sfogo. Un tale improvvisò una strana danza per far ridere i compagni, alcuni si radunarono in cerchi ristretti, chi cantava, qualcuno venne a complimentarsi e ringraziare per l’iniziativa.
Smontammo e caricammo in macchina la strumentazione, mentre le guardie facevano girare enormi chiavi nelle serrature delle porte metalliche che interrompevano i corridoi. Se non ricordo male, durante il viaggio di rientro furono pochissime le parole che ci dicemmo, ciascuno chiuso ad assimilare ed elaborare l’esperienza, a cercare di visualizzare il limite che separava la nostra libertà dalla loro reclusione.
Noi liberamente evadevamo, loro, invece, lo facevano con minor frequenza.

Nelle notti chiare di vino rosso
gli amici parlano di libertà verità
una stella li sta a sentire
e forse ride dell’ingenuità
(Canzone piccola piccola)

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