_CANZONI NON RIGENERABILI

CANZONI NON RIGENERABILI

“Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta. Il coltello viene inventato prestissimo, la bicicletta assai tardi. Ma per tanto che i designer si diano da fare, modificando qualche particolare, l’essenza del coltello rimane sempre quella.”
(Umberto Eco, La bustina di Minerva)

Un po’ di anni fa conobbi Celestino Soddu e sua moglie Enrica Colabella, frequentandoli ogni tanto nelle sere estive, nella casa campidanese che stavano ristrutturando in un paese vicino al mio.
Non ricordo esattamente in quale occasione ci conoscemmo, ma sicuramente tramite Clara Murtas.
Nel loggiato antistante il grande giardino, frontalmente agli antichi granai che sognavano di trasformare in laboratorio permanente di architettura e per ospitare eventi artistici e socio-culturali, sedevamo intorno al tavolo, lui col sigaro in bocca a riempirgli il sorriso coronato di bianco, e lei, gentilissima, a riempire i bicchieri con i vini migliori che erano riusciti a trovare.
Entrambi sono architetti, lavorano in giro per il mondo e insegnano al Politecnico di Milano, abitando stabilmente in una villa sul Lago di Como.
Celestino è professore di Composizione architettonica e Progettazione generativa alla Facoltà di ingegneria edile/architettura e di design del Politecnico di Milano. Lì ha fondato ed è direttore del laboratorio di progettazione generativa.
È infatti il precursore internazionale della progettazione generativa in architettura e design: dal 1986 ha realizzato e utilizzato nella ricerca di progettazione architettonica i software sperimentali da lui creati, capaci di generare architetture e città con specifiche identità culturali e ambientali. A monte degli algoritmi c’è una chiara e riconoscibile visione poetica.
Dal 1998 organizza e dirige il convegno-festival internazionale Generative Art, che ha coniato il nome “Generative Art” nel mondo e che raduna annualmente ricercatori provenienti da tutti i continenti.
Il termine Arte generativa si riferisce al concetto di arte che genera arte dove l’opera artistica è il prodotto di un sistema autonomo in grado di determinare le caratteristiche (forme, suoni, colori, etc.) di un’opera che altrimenti richiederebbero decisioni prese direttamente dall’artista.
Nelle nostre piacevoli chiacchierate, Celestino ed Enrica ci parlavano dei loro viaggi, delle genti che incontravano, dei luoghi, dello spirito eccessivamente accademico che ancora alberga nei nostri istituti scolastici, che provoca la perdita di contatto con l’humus della produzione e della creatività, di architettura modernista, dei nuovi codici e delle nuove estetiche.
Celestino si divertiva come un bambino a fare esempi di arte generativa, per esempio, trasformando una banale caffettiera in altre infinite forme che avessero sempre la medesima funzione, quella di fare il caffè. Ci raccontavano dello stupore e del grande interesse dei cinesi, di certe assurde credenze locali.
Parteciparono a un concorso pubblico di progettazione per la riqualificazione di una strada storica di Serrenti, dove si svolge la festa di Santa Vitalia, che lambisce una chiesa romanica, con un’idea visionaria e alquanto folle, creando scenari modernisti con l’utilizzo di codici nuragici — così spiegò Celestino, che si candidò un po’ per gioco e un po’ per amicizia.
In qualche occasione, una o due volte, capitò che loro fossero in Sardegna in concomitanza con dei miei concerti e vi parteciparono: dissero che ero molto bravo, che scrivevo piuttosto bene, ma non so quanto realmente apprezzassero la mia arte fossilizzata.
Per due anni di seguito mi invitarono al festival Generative Art che organizzano a Milano, con la possibilità di associare alle mie canzoni la costruzione generativa di luci e immagini che scaturiscano dalla mia poetica. Loro la facevano semplice, ma la questione è piuttosto complessa. Ogni volta ho rifiutato spiegando loro che l’arte generativa è quanto più distante dal mio modo di scrivere ed eseguire canzoni.
Non trovo alcun punto di contatto fra le due cose.
Le mie canzoni subiscono molteplici cambiamenti in fase di produzione, sia per le parti musicali, sia, soprattutto, nel testo; però, una volta formate e definite, rimangono uguali a sé stesse per sempre, come se si pietrificassero. Non intendo dire che non ami riarrangiarle per proporle dal vivo, cambiare i loro abiti, ma il testo, la cosa che più conta per me, resta immutato, salvo l’eliminazione di qualche d eufonica di troppo che in passato utilizzavo con troppa leggerezza: è un po’ come per il libro o il cucchiaio di Umberto Eco.

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