_SCRIVERE CANZONI

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«Scrivere un diario è come guardarsi in uno specchio di fiducia, addestrato a trasformare in bellezza il semplice bell’aspetto o, nel peggiore dei casi, a rendere sopportabile la bruttezza massima. Nessuno scrive un diario per dire chi è. In altre parole, un diario è un romanzo con un personaggio solo». Così scrive Josè Saramago nei Quaderni di Lanzarote, una sorta di diario scritto quand’era in esilio in seguito alla censura posta dal governo portoghese al suo Vangelo secondo Gesù Cristo. Anche questo è un diario, il mio, che vira da un esercizio di puro narcisismo a pagine di frustrazione, disperazione, disperanza e sogni a cataste, a formare pile, come certi libri riposti impolverati sugli scafali, che non trovano posto messi in un ordine preciso, col dorso che si fa leggere.

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Se il mio vizio più longevo è quello di scrivere canzoni, un altro subentrato in età adulta è quello di prendere nota di aneddoti e pensieri su una specie di diario.

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Sarebbe più affascinante e pittoresco se queste note diaristiche fossero scritte sulla carta con una Olivetti Lettera 22, oppure a mano — se la mia calligrafia fosse comprensibile ed elegante. Ma, appartenendo la macchina da scrivere a un’epoca appena più vecchia di me, scrivo spesso direttamente sulle pagine virtuali di un tristissimo computer.
Utilizzo il simbolo di punteggiatura # (cancelletto) per differenziare le varie note sommarie, pensando che somigli al simbolo musicale ♯ (diesis).

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Il lavoro di scrittura delle canzoni è privato, intimo e solitario, e certe opinioni dell’autore è meglio rimangano inespresse. Spesso nelle interviste mi è capitato di dire cose non del tutto vere o palesemente false: è un modo per proteggere l’atto creativo o per raccontarlo non sapendo esattamente cosa dire.

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Solitamente i titoli li decido alla fine delle canzoni, quando sono formate, perché raramente capita che abbia un argomento ben definito prima che siano composte. A volte sono le parole a nascere sulla traccia di una musica, delle altre è il contrario, così mi ritrovo anche alcuni testi con l’annotazione ai margini ‘Canzone orfana di musica’. Il processo di scrittura muta sempre ed è imperscrutabile, ma spesso è parola dopo parola, verso dopo verso, che mi si forma un’idea precisa, un senso o una storia.

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Cantautorato è un termine orribile che non significa niente, ma che fa pensare al participio o a uno stufato. Sono sempre esistiti quelli che si scrivevano da soli le canzoni e che da soli le cantavano, magari perché non riuscivano a piazzarle ad altri interpreti, ma quasi mai era canzone d’autore.

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Mi affido fortemente a una comunicazione fatta di parole scritte, l’unica che mi conceda la possibilità di esprimere il mio pensiero con il lusso di tacere. Scrivere è la misura del mio silenzio.

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Scrivere canzoni, a pensarci bene, significa esercitarsi con metodo, precisione e abnegazione all’insensatezza della vita. In un certo senso sono un Travet declinato alla canzone d’autore.

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Mi piace l’idea di un concept che parli di mestieri, dell’arte di vivere e sopravvivere, dell’arrangiarsi e dall’arricchirsi, dello sfruttare e del donare, del respingere e dell’accogliere. Un po’ di ritratti tratteggiati in gioventù ce li avrei, soprattutto prostitute, ma anche un sarto di Spoon River. Probabilmente troverei anche un pertugio per raccontare di quella giovanissima operaia tessile morta stritolata dall’orditoio, in un rumore assordante e fili che ruotavano, vittima dello sfruttamento, del capitalismo e dalla perversa logica industriale del profitto. Tutte vicende insensate.

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Scrivere canzoni non è il mio mestiere, ma lo faccio con diligenza e riesco pure a divertirmi, anche quando sono malinconiche. Nessuno mi paga per farlo e quindi sono indipendente e libero.

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Ho scelto di scrivere canzoni che somiglino a me, che abbiano il mio sguardo. Non sono disponibile a compromessi per il raggiungimento di obiettivi in odor di soldi, non perché sia particolarmente puro, ma perché non ne ho bisogno e non mi interessa. Per me conta solo riuscire a trasformare pensieri, emozioni e stati d’animo in parole da adagiare su una musica, ossia scrivere canzoni.

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Scrivo canzoni perché scrivere è per me un’esigenza, ma dire ciò è presuntuoso, come volersi includere di forza nella categoria degli intellettuali. D’altronde, non mi limito solo a scrivere, perché poi le canzoni le pubblico, e ciò è sintomo di narcisismo o di propensione a un estremo esibizionismo.

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Parafrasando Umberto Eco, tutti da giovani scrivono canzoni, come l’acne giovanile; poi, i bravi cantautori le distruggono e i cattivi cantautori le pubblicano e continuano a scriverne altre e altre ancora, finché morte non sopraggiunga.

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Scrivere canzoni è riunire versi scritti e musica, restringere le storie, compendiare, condensare. La mia musica è ostinatamente controtempo, ma non penso possa considerarsi senza tempo; è orgogliosamente leggera, ma non proprio classica, lineare, quasi monotona, ma ribelle ai suoni dominanti.

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Non mi trovo d’accordo con chi sostiene che i cantautori non esistano più: come se si trattasse di un fenomeno artistico soggetto agli umori e ai capricci delle mode.
Io dico che la canzone d’autore esiste e ha senso cercarla, scoprirla, ascoltarla, seguirla e studiarla, confrontarsi sulle implicazioni di questo ‘genere’, anche letterarie, perché oggi non meno di ieri i cantautori hanno qualcosa da raccontarci: cantano il nostro tempo. Quando dico ‘genere’ non mi riferisco alla parte musicale, perché è ampiamente provato che i cantautori spazzino dal folk al rock. La canzone d’autore è piuttosto una forma d’arte, e il fatto di scrivere e cantare le proprie canzoni è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere inquadrato nel non-genere della canzone d’autore. E se non mi definissi, io per primo, cantautore, queste considerazioni potrebbero addirittura ritenersi sensate.

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Mi piace l’idea di scrivere canzoni e cantarle senza l’ansia di dover essere il più bravo o il più originale; senza farle competere come galli, così che non ne escano dissanguate. Forse anche per questo nessuno ci scommette sopra una lira.

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Penso non si possa accusare di epigonismo chi scrive testi propri. Anche il discorso dell’anacronismo lascia alquanto a desiderare perché drogato dal gusto personale… così potrei dire che, in una canzone, l’arrangiamento musicale costituisce un vestito, e un vestito alla moda è destinato a passare nel tempo, mentre uno povero colpisce meno ma emana dignità. Ma anche quest’ultima affermazione è labile e opinabile, per cui io continuerò a scrivere canzoni, qualcuno le apprezzerà e qualche altro le demolirà con qualche pretesto.

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Soprattutto per ciò che riguarda la canzone d’autore non si investe una lira da troppo tempo, per questo è probabilmente destinata a estinguersi; però, continuando a esserci parecchie persone che proseguono a scrivere canzoni, è possibile che un giorno possano uscire dalle piccionaie nelle quali sono state relegate.

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Dal mio punto di vista, per poter essere considerato cantautore è condizione necessaria ma non sufficiente scrivere da sé le canzoni e cantarle.

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Caro A.,
come sai, il mio pochissimo interesse social mi impedisce di essere aggiornato su diverse cose: stai bene e stai suonando in giro?
Io continuo con la convinzione che siano pochissimi i luoghi dove proporre musica, e pertanto, non è che me la tiri, ma non suono dal vivo, o lo faccio molto raramente.
Oltretutto sono disgustato dall’ostinazione di certa stampa isolana nell’ignorare la mia musica, eppure, mi dico, mi ha segnalato addirittura Luigi Viva, uno dei più importanti giornalisti musicali a livello nazionale (nazione Italia). Così, continuo a scrivere e a suonarmi le cose da solo, palle comprese, ogni tanto pubblico un singolo e, se li mettessi insieme, avrei già un nuovo album pronto da gettare nell’abisso. Saludos.

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Scrivere canzoni con la chitarra è per me molto efficace: permette di catturare storie, che restano impigliate tra le corde, e di farle essiccare nella cassa armonica, per poi restituirle alla realtà.

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La pratica della raccolta delle olive riconcilia con il mondo: incanala i pensieri verso l’unico obiettivo che è la raccolta stessa, e non lascia spazi a divagazioni. Però, con la testa dentro un groviglio di rami ho pensato che scrivere canzoni non abbia molto senso se poi non le si fanno ascoltare agli altri. Oltretutto, scrivere canzoni valide — qui viene fuori la mia presunzione — e non portarle sul palcoscenico somiglia abbastanza all’atto della masturbazione. A mia discolpa, specifico che questo pensiero non è durato più di un minuto.

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Scrivere canzoni è stato ed è tuttora il mio vizio più morboso, che non sono mai riuscito a domare e che provoca ancora oggi una sorta di dipendenza.
Quest’abitudine, acquisita da ragazzino, in un certo senso ha avuto una svolta al compiere dei vent’anni, quando l’assuefazione alla scrittura si strutturò e radicò indissolubilmente. Per questi motivi, un giorno mi piacerebbe pubblicare un album o bootleg dal titolo Vizio di gioventù. Canzoni dal ’93 al ‘96, contenente alcune di quelle vecchie canzoni, quali “Canzone già sentita”, “Tolù”, “Sulla strada”, “Funerale di un anarchico”, “Questi ubriachi”, “Dio e il mercenario”, “La figlia del padrone”, “Canzone del tempo che passa”, “Ballata di un paese”, “Le piogge di marzo”, “Il moribondo”, “Francesca”, “Gli amori sbagliati”, “Se io fossi Giuseppe”, etc. Che poi, a pensarci bene, anche “Il professore” è una canzone di quel periodo.

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Spesso la melodia e le parole delle mie canzoni nascono quasi simultaneamente. Una volta messa in bella la bozza del testo con a fianco gli accordi, provo a cantarla un po’ di volte, poi metto il foglio sul leggio e lì rimane a decantare per almeno una settimana, dove apporto modifiche, correzioni, tagli, aggiunte e, in qualche caso, stravolgimenti dei versi e della linea melodica. La parte musicale mi crea meno ansia del testo perché so che con gli arrangiamenti ci sarà modo di migliorarla notevolmente; le parole sono invece un vero e proprio cruccio e ci lavoro a volte per anni. Quindi capita che impieghi venti minuti per scrivere una canzone, ma che sovente possa dirsi conclusa solo dopo alcuni anni.

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Riguardo il testo, oltre alla libertà di scrivere sulla scia delle emozioni suscitate dalla tua poesia, mi sono preso qualche licenza poetica, anche se ammetto di essere in dubbio su un aspetto linguistico: l’alternanza del modo congiuntivo corretto con quello dell’uso comune parlato; ma mi pare funzioni.

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Diceva Grazia Deledda: «Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta». Se un secolo fa scrivere versi poteva apparire come qualcosa di inutilmente eclatante, nonostante anche i meno colti sapessero del genio di Dante, oggi dovrebbe essere chiaro che ciò — scrivere versi — è un dono che, annaffiato e curato, potrebbe portare al germoglio di qualche poesia, o di una canzone. Sia chiaro che solo il tempo potrà conferire a tale predisposizione una legittimazione o una stroncatura.

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Scrivere di testi letterari, di poesia, di testi di canzoni d’autore è quasi come scrivere testi letterari, poesia, canzoni, se non più difficile.

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Non credo di riuscire mai ad adattarmi ai tempi in cui vivo e, per quanto riguarda il mio vizio di gioventù — scrivere canzoni —, come mi disse un importante discografico in pensione, vivo nei tempi sbagliati per fare il cantautore; se avessi cominciato a scriverle negli anni in cui sono venuto al mondo forse sarebbe andata diversamente.

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Prima di De Gregori e di Sirianni — il prima si riferisce alle rispettive date di pubblicazione —tradussi “Not dark yet” di Bob Dylan, traduzione-adattamento che non mi soddisfò, come, in genere, trovo poco riuscite le traduzioni da canzoni anglosassoni. Ma è bene provarci, se non altro per esercitarsi a scrivere, nonostante i risultati rimarranno quasi sempre nel cassetto o, al massimo, potranno essere sfoggiati in qualche concerto.

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Il mestiere del cantautore dovrebbe interrompersi con l’impacchettamento dei dischi (oggetti quasi obsoleti), comunque prima della relativa vendita — la parte commerciale dovrebbe essere compito esclusivo di altre figure professionali —, salvo poi riprendere con la fase dei concerti, quando e se il cantautore avesse voglia di farli. Insomma, il cantautore dovrebbe solo scrivere canzoni e cantarle in pubblico, ma il mestiere del cantautore è una professione a me ignota e credo che, preso atto dei miei quarantaquattro anni, lo resterà per sempre.

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Qualche volta cedo all’illusione di conferire ai testi un compito ‘sociale’ che possa, se non cambiare qualcosa, almeno far riflettere su certi argomenti; altre volte, le mie canzoni vengono sovrastate da un lato intimista e raccontano di me, delle mie piccole esperienze di vita, che essendo abbastanza normali possono essere comuni ad altre persone. Sempre, dietro ogni canzone, c’è un’urgenza di scrivere ma non necessariamente di comunicare, che si rivela spesso velleitaria.

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Continuo a scrivere, suono poco in giro, aspetto sempre che qualcosa possa accadere, mi illudo, poi ci rido sopra.

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Quasi sempre le mie composizioni vengono fuori col marchio di fabbrica di Fabrizio De André, aspetto che penalizza e inorgoglisce nella stessa misura, ma come non faccio niente per scrivere così, non posso nemmeno farlo in altra maniera.

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Un conto è scrivere canzoni che si ispirano a testi editi di altri, un altro è esercitare la professione dell’usurpatore. Reputo di fare la prima delle due cose: capita che mi appropri di pagine altrui per trasfigurarle in canzoni, ma indico sempre gli autori originali.

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Potendo contare solo su limitate esperienze vissute sulla mia pelle, per scrivere ed esprimermi in musica mi avvalgo spesso di quelle trafugate nelle letture, oppure di quelle altrui.

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Fortunatamente o sfortunatamente sono lontanissimo da potermi considerare un veicolo di trasmissione, mi limito a scrivere canzoni quando arrivano e mai ho pensato di scriverle per ragioni puramente estetiche, oltretutto la mia chitarra, in queste mani, non possiede nemmeno troppo sentimento.

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Scrivere canzoni da tanti anni e studiarci addirittura sopra è in un certo senso una forma di malattia, se pur lieve, o quanto meno, crea dipendenza.
È un processo incalzante e indifferibile, nonostante nella maggioranza dei casi quelle canzoni rimarranno in un quaderno a fianco alla chitarra con le corde da cambiare.
Parafrasando un poeta prestato alla musica che se n’è andato lo scorso novembre a Los Angeles, dico che io non scrivo canzoni, ma solo pensieri che corteggiano la musica.

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Le mie canzoni non nascono da chissà quale ricerca musicale. Inizialmente sono del tutto nude, come ho dimostrato con il mio ultimo lavoro Canzoni da solo.
A forgiare il mio modo di comporre e di scrivere i testi sono state le scuole americana e francese, conosciute di riflesso attraverso i cantautori italiani.

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Ho cominciato a scrivere canzoni da giovanissimo per la band hard rock di cui facevo parte. Poi, terminati gli anni turbolenti della gioventù e spenti i riflettori sul palcoscenico immaginario del rock’n’roll, ho intrapreso un altro tipo di percorso, in termini di scrittura ma anche umano.
Smisi di esibirmi per quasi quindici anni, ma continuavo a scrivere, nonostante il mio tempo fosse interamente dedicato a Emergency. Mai mi venne in mente di sfruttare l’immagine dell’associazione per pubblicizzare la mia musica, anche se potevo disporre di diversi contatti; anzi, tendevo a nascondere la mia attività artistica. È evidente come l’attitudine di scrivere canzoni contraddistingua e determini la mia identità.

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Scrivere canzoni, come scrivere in genere, non è un’attività con finalità esclusivamente estetiche; essendo l’esigenza di comunicare, di raccontare, una necessità primaria dell’essere umano — che gli ha consentito di svilupparne la specie — scrivere canzoni risponde a prerogative simili, almeno per quanto mi riguarda.

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Per quale motivo raccontare storie?
Per uno solo e per mille motivi, come uniche sono le storie e molteplici gli occhi che le hanno vissute e quelli che le interpretano.
Per una sola ragione e per mille ragioni vale la pena rovistare tra le pagine dei libri, depredare frammenti e paesaggi, perché il racconto è una peculiarità dell’essere umano.
Scrivere canzoni in forma di racconto è un pretesto fra mille per incontrarsi, perché molte solitudini messe assieme non diventano un’unica solitudine, né amplificano l’intensità. Anzi, potrebbero, per qualche momento, annullarsi a vicenda, tenersi compagnia.

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“Gli amori sbagliati” è una canzone che si può scrivere solo a vent’anni, prima che il vento spenga la fiamma dell’entusiasmo, e solo se si è ascoltato abbastanza Guccini, così da proiettarsi — mentre la si scrive — a vent’anni dopo.

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Se questo vezzo di scrivere canzoni non dovesse trasformarsi al più presto in un mestiere, allora dovrò cominciare a pensare cosa vorrò fare da grande.

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La mia nuova dottoressa sostiene che se la malattia si è addormentata sia merito del farmaco e mio. Far musica e scrivere canzoni mette in moto una serie di connessioni a livello cerebrale e d’altronde non conosciamo che meno della metà dei suoi processi.

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Parafrasando Wislawa Szymborska posso affermare che preferisco la ridicolaggine di scrivere canzoni a quella di non scriverne.

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A conti fatti, non mi considero un vero chitarrista, ma ritengo di conoscere lo strumento sufficientemente bene per scrivere canzoni e accompagnarmi mentre le canto.

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In queste pagine virtuali mi capita di scrivere le sinossi di alcune canzoni. Lo faccio per schiarirmi le idee riguardo quello che ho scritto, ma pure come esercizio mnemonico. Nel caso in cui le utilizzi in qualche intervista divengono una guida per l’ascoltatore, anche se ciò potrebbe significare che il testo a cui si riferiscono è troppo ermetico o fuorviante.

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Per me scrivere canzoni è un’attitudine che quando si manifesta è urgente, ma che non va sollecitata, anzi, che va saputa attendere. Delle volte resto mesi senza scrivere niente e delle altre scrivo come un forsennato più cose nell’arco di pochi giorni. Si tratta di una forma di bulimia, non dell’autore ma della scrittura. Questa patologica voracità fa sì che alla fine si scoperchi qualche orcio o vaso di Pandora, che però non contiene tutti i mali del mondo, ma solo canzoni, bozze di versi, rime baciate, accordi e melodie. Dopotutto, mi risulta che scrivere canzoni non produca gravi sciagure agli uomini.

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Amo scrivere e cercare le parole, come se andassi a funghi, e le più difficili sono quelle da non dire. A quarantacinque anni gioco ancora al cantautore, ma con questo disco credo che la smetterò, per dedicarmi sul serio ai funghi.

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Un tempo i cantautori avevano il compito di scrivere e cantare le proprie canzoni e, dopo un periodo di gavetta più o meno breve, venivano supportati da qualche intraprendente produttore che metteva loro a disposizione i musicisti, consulenti, tecnici, attrezzature, le sale di registrazione, pianificava i concerti, seguiva personalmente o demandava ad altre figure competenti gli aspetti relativi alla promozione e alla distribuzione dei dischi. Oggi un cantautore deve: comporre, cercare musicisti che credano nel suo progetto, pagarsi lo studio per le registrazioni, comprare e cambiare le corde della chitarra, realizzare il materiale grafico per la promozione e la distribuzione, acquistare la strumentazione, girare il videoclip elemosinandolo a qualche conoscente, autopromuoversi, autoprodursi, farsi scattare qualche fotografia, simulare indifferenza per il successo, accettare di aprire una pagina social nonostante l’evidente inettitudine, organizzare da sé infimi live, stuzzicare critici e giornalisti per parlare della propria musica, e, contemporaneamente, guadagnarsi il pane e il vino per vivere, e pagare tutte le spese che la sua scelta bizzarra, quasi un vezzo, comporta.

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Non mi si rimproveri del presunto maschilismo insito nel racconto: dal punto di vista storico del fenomeno Canzone d’autore. Fortunatamente per quelli che oggi definiamo maestri, non vi furono cantautrici sullo stesso piano artistico; riguardo il presente, le esponenti donne del settore canzone d’autore — se ignote o di nicchia — vivono le medesime difficoltà dei colleghi uomini.

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Per recensire le canzoni occorre un minimo di competenza musicale, un po’ di sensibilità, fantasia e, soprattutto, saper scrivere. Ma non è detto che tutto ciò basti.

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Scrivere canzoni è un atto che consiste nel mettere in fila le parole su un tappetto musicale, melodia e armonia. A volte arrivano prima le note dei versi, altre volte è il contrario, altre ancora si presentano miracolosamente insieme. La cosa più difficile è trovare il giusto equilibrio fra i due elementi.

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Scrivere canzoni è stato ed è tuttora il mio vizio più morboso, che col passare degli anni si è strutturato e radicato indissolubilmente. Ora, mi capita di cantarle e suonarle davanti a un pubblico, ma in fatto di live continuo a essere estremamente parsimonioso.

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Porpora Marcasciano scrive, pressappoco, che nell’esperienza trans la prostituzione era l’asse portante su cui poggiava l’esistenza, intorno alla quale ruotava tutto il resto… Era lavoro e vocazione, spettacolo e dramma, condanna, mezzo e fine, rito, regola, segno, marchio di riconoscimento. Dall’altra parte, quella dei fruitori, c’era e c’è — dal mio punto di vista — un bisogno smisurato di trasgredire riducendo al minimo i rimorsi di coscienza.
Nel 2000 scrissi “Jane”, una canzone che parla di una transessuale, ispirandomi probabilmente alla “Princesa” di De André. Poi, nel 2019, ho avuto il piacere di incontrare e chiacchierare brevemente con Porpora Marcasciano, sociologa e scrittrice impegnata nella difesa dei diritti delle trans, ella stessa transessuale, che in passato ha conosciuto personalmente Fernanda, la protagonista della canzone di De André; Porpora la conobbe a Roma, proprio nella pensione dove entrambe vivevano e dove, successivamente, accadde l’aggressione alla proprietaria della pensione. Così, mi è venuta voglia di osare nuovamente e scrivere una canzone che trattasse quei temi, ma senza addentrarmi nelle fasi primarie della trasformazione, della migrazione del corpo maschile in femminile, che Porpora ha detto essere state illustrate con stupefacente efficacia e verità in “Princesa”.

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Un amico-giornalista mi ha fatto notare che da qualche anno, con l’attivazione del mio sito web e con la mia assenza recidiva dai live, esisto come cantautore solo perché detentore di un sito ben strutturato e frequentato: il fatto di scrivere e cantare canzoni — dice — passa quasi in secondo piano se non c’è una casa dove ospitarle e farle vivere… In qualche modo, ora sono in lutto per l’estinzione del cantautore che ero. E, risolvendo la problematica, dovrò rifare la gavetta dal principio.

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Scrivere canzoni è empatizzare con delle storie vestite di musica, che siano grandi o piccole vicende del mondo. È entrare nei personaggi, spesso frutto della fantasia, ma metaforicamente reali.

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A un non artista come me, che si spreme le meningi nello scrivere e comporre, leggere tali fatue proposte spacciate per il fantomatico treno che passa solo una volta nella vita, gli fa appesantire irrimediabilmente la pudenda, per usare un sostantivo rubato a Eco.

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Il mio modo di lavorare, ossia di scrivere canzoni, prevede che stia sempre con i piedi per terra, a parte quelle mezzore di inebriamento durante l’ispirazione, sequestrato dalla fantasia. Però, confezionata una canzone, la consegno alla mia feroce autocritica, nonostante mi meravigli per qualunque gratificazione, sempre che non sia un gesto gentile di circostanza; e, inevitabilmente, quando ciò accade, aumentano autostima ed ego, salvo poi planare nuovamente sulla superficie terracquea.

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Credo che, per quanto bravo e famoso, un cantautore possa descrivere la realtà, ma non cambiarla.

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Scrivere canzoni, cantarle, sapendo di avere talento, e scontrarsi contro un muro di indifferenza; nonostante il tempo che passa provarci con tutte le forze, finisce per provocare frustrazione.

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Ho imparato presto che quando mi accingo a scrivere una canzone devo avere ben presente che i suggerimenti tecnico discografici, come la durata massima di 3 minuti o poco più, devo gettarli al cesso. Superando la questione del “chi se ne frega”, capita che si possano scrivere anche buone canzoni.

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In conclusione — avevo preannunciato di non possedere risposte logiche — io non ho mai scelto di scrivere in musica, ma è diventato il mio vizio più longevo. E ora mi ritrovo con cassetti pieni di sogni, di dubbi e di canzoni, ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso.

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Per godere della musica basta ascoltarla, per comprenderla appieno bisogna rimanerci impigliati. Per poterne scrivere bisogna studiaci sopra, aver letto tanto, ascoltato tanto e saper scrivere.

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Scrivere, comporre, cantare e suonare sono quattro mestieri diversi.

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Poesia non è scrivere tre versi mandandoli accapo. La poesia, anche se libera, ha le sue regole nella sintassi, nella metrica, nel ritmo, nelle figure retoriche, nella fonetica, nella rima, nella musicalità. Somiglia molto alla canzone, ma è solo una cugina o una sorella. E bisogna saperla leggere.

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Continuo a scrivere canzoni, a filare e a coltivare il sogno di fare il cantautore di professione, cercando di mantenere una visione d’insieme del percorso, senza trascurare i particolari del viaggio, evitando di deragliare nell’egocentrismo, nell’autocompiacimento e nelle disillusioni sempre in agguato.
Non vivo la dimensione poetica, bohémien, dell’artista cantautore. Forse non ci riuscirei, innanzitutto perché la trovo fuorviante rispetto al ruolo dello scrivere canzoni, questo sì indispensabile.

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In fin dei conti — mi dico — sto benone, anche se una sola cosa vorrei fare in questa vita: il cantautore di professione. Scrivere canzoni e cantarle fa sì che possa definirmi cantautore, ma certo, per vivere non posso basarmi su questa attitudine o vizio che sia. Man mano che il tempo passa, il sogno si fa sempre più utopico e la mia inquietudine più quieta, come se una parte di me si fosse rassegnata all’idea che la possibilità di vivere delle mie canzoni mi sia negato. Sarebbe consolatorio smettere del tutto, intendo anche di scrivere, ma ciò non è praticabile, come se esso fosse un bisogno vitale e salvifico, un salvagente per tenermi a galla nei marosi dell’esistenza, una gomena a cui aggrapparmi. Ieri notte ho sognato mia madre, donna ancorata alla tradizione culinaria sarda, che preparava l’hummus di ceci, dimostrazione del fatto che i sogni, tutti quanti, sono sempre irrealizzabili.

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Credo che scrivere queste note, anche se mi risulta difficile ammetterlo, sia un modo di lasciare tracce del mio essere un cantautore ignorato: una rivalsa inutile per tramandarmi ai posteri, un lungo epitaffio.

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Camus scrisse che «la nobiltà del mestiere di scrittore sta nella resistenza all’oppressione, dunque nell’acconsentire alla solitudine». Erri De Luca, nei panni di lettore, condivide quel pensiero e sottolinea di accorgersi «se lo scrittore è un isolato o fa parte di una consorteria», aspetto che cambia di molto il valore nei suoi confronti; dice anche di non credere che «scrivere storie sia un esercizio governabile da disciplina e da ragionevolezza, e che possa trarre benefici dall’esperienza svolta. In ogni storia» — dice Erri De Luca — «sento di andare allo sbaraglio e questo è per me il solo indizio promettente».

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Un conoscente, nel giustificare il mio scrivere canzoni spesso ispirato ai libri che leggo, dice ironicamente che, onde evitare interferenze, dovrei farlo nel giardino dell’Eden, avendo accanto solo Eva, un serpente e un melo. Aggiungo che probabilmente Eva si prenderebbe l’intera scena, oscurando il resto.

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Il fatto di scrivere canzoni e cantarsele, fa sì che si conosca il fermento — pur non frequentandolo di persona — che si agita nei bassifondi della canzone d’autore, quella stagnante, rinchiusa nella nicchia.

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Parafrasando Erri De Luca, «la scrittura poteva farmi correre dove non c’era un metro per i piedi, mi scaraventava al largo mentre me ne stavo schiacciato sopra un foglio». Pure io sono abituato all’isolamento largo e forse se mi sono messo a scrivere l’ho fatto per forzare le chiusure dentro di me.

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Se si vive alla ricerca della scrittura a tutti i costi, in fondo non si vive affatto, se non per scrivere qualcosa che non si è vissuto: verrà una mediocrità da tutti i punti di vista, specie se si parla di canzoni.

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Guardo più volentieri un bel film o leggo un libro piuttosto che ascoltare nuova musica. Quando ascolto musica deve essere quella che piace a me, non sono troppo curioso di fare nuove scoperte. Di solito ascolto solo quella che mi suscita emozioni, che qualche volta avrei voluto scrivere io.

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È talmente palese l’indifferenza nei confronti di chi scrive canzoni di un certo tipo che, nel momento in cui mi viene l’ispirazione e la voglia di comporne una, mi sanguinano le tempie. Se fosse possibile ignorare lo stimolo creativo o abortirlo eviterei ulteriori sofferenze, delusioni e disincanti. Prendo nota soprattutto di alcuni critici musicali che mi trattano come se fossi inconsistente o appestato e, sempre più, “Lettere da Spoon River” rappresenta una fossa su un terreno con composizione granulometrica tale da agevolare il processo di mineralizzazione della salma, oppure, a voler essere allegri, il testamento artistico d’un cantautore ignorato da vivo e dimenticato da morto, che per qualcuno era solo una stella nella volta celeste che voleva brillare a tutti i costi e per altri una chiazza d’olio nell’asfalto.
Però, non faccio di tutta l’erba un fascio: fortunatamente, mi capita anche di leggere impressioni sincere, profonde e positive. È innegabile che per chi scrive sia indispensabile scorgere dall’altra parte un qualche interesse, un po’ di attenzione: sapere che qualcuno ascolta e apprezza, che dà senso alle canzoni che mi capita di scrivere. D’altra parte basta un minimo cenno di riscontro come «Caro Nicola, è un azzardo di sicuro ma mi sembra che ci sei riuscito. Se vuoi ti scrivo poche righe mie, ho solo bisogno di un po’ di tempo perché sono alle prese con un romanzo in uscita. Bravo comunque e coraggioso», e se a scriverlo è Marco Baliani posso riposare in pace all’ombra del lentisco, nella collina vicino al fiume.

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Un’era fa i cantautori si limitavano a scrivere e cantare le loro canzoni. Oggi, per lo meno quelli non mainstream, devono pure promuovere le produzioni, correndo così il rischio di diventare fastidiosi.

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Musica da riscrivere daccapo: troppo simile ad altre canzoni mie e di altri. Oppure, pescarne una dalle orfane di testo e vedere come veste (negli Appunti per canzoni ci sono diversi spunti di melodie). Ciò c’era scritto a margine del testo di “Certe tristezze”: una melodia di soccorso, ma non troppo originale, è giunta il giorno seguente. La canzone tratteggia la solitudine di una madre che, parlando fra sé, parla al figlio partito chissà dove e, confessandogli il suo amore materno, parla di un amore finito che lo concepì, mettendolo in guardia sugli inganni dell’amore e la durezza dei distacchi. E io continuo a stare in pace con la scelta non riproduttiva condivisa con la compagna della vita.

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Quando ho cominciato a scrivere canzoni mi imbarazzava essere definito cantautore. A farmi comprendere che in realtà era ed è un mestiere, per chi ha la fortuna di farlo, tutt’altro che frivolo, hanno contribuito alcuni cantautori e, soprattutto, le loro figlie, le canzoni, come “Capelli rossi” di Bubola, su un caso di stupro con omicidio. L’amico cantautore salentino, Enzo Marenaci, a tal proposito scrive: «Insieme ad altri amici avemmo ospite Massimo Bubola a casa in Salento dov’era in vacanza, circa trent’anni addietro, e quella sera, lui quarantenne e noi ventenni o giù di lì, ci parlò del coraggio di fare la scelta di vita del cantautore, me lo ricordo bene perché quel coraggio mancò a me e ai miei amici, ma senza alcun rimpianto, chi ha rimpianti smette di scrivere e di sognare». Non so, forse averci creduto e provato (a fare il cantautore), senza esserci riusciti, non è annoverabile fra i rimpianti collezionabili; o forse sì, ma come dici tu, Enzo, non si smette comunque di scrivere canzoni e di sognare.

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Magro conforto: la sfortuna e la desolazione di non poter fare il cantautore di mestiere si compensano con la fortuna di poter scrivere solo le cose che mi piacciono, in maniera del tutto indipendente.

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Il fatto di scrivere mi ha permesso di non perdere di vista il mio io bambino e di rincontrarlo spesso mentre scorrazzava a piedi nudi per le strade non asfaltate davanti alla sua casa, identificata da due numeri civici, uno posto di fianco al portoncino di legno e l’altro al cancello di ferro, ancora gli stessi.

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Ribadisco una cosa che ho sempre detto: l’indipendenza è la magra consolazione che si guadagna il cantautore che per vivere debba fare altro di professione; altro rispetto allo scrivere canzoni. Altrimenti, pezzi come “Tolù” o come “Lettere da Spoon River”, che amo, mai e poi mai potrei pubblicarli, vista la scarsa attrattiva commerciale che credo suscitino in quel che è rimasto del mercato musicale in Italia.

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Non è insolito sapere di colleghi cantautori, fra quelli poco noti, che durante le loro esibizioni in streaming, ma non solo, danno più spazio alle canzoni d’altri che alle proprie, approcciandosi al piccolo pubblico con invettive interattive e ammiccanti. Così facendo, tecnica goffamente mutuata dai social, rinunciano alla drammaturgia del loro scrivere, a favore di un’interazione fittizia che sfrutta il narcisismo e l’iperattività repressa di chi si trovano davanti. Questo ragionamento nasce da una riflessione di Baliani sul teatro ai tempi del Covid, che conclude parlando del rischio che si corre nelle esibizioni teatrali vere: «il senso stesso dell’essere in scena, ossia quello di non essere ascoltati, o rifiutati, oppure amati, compatiti, sottoposti al giudizio, alla coscienza, alla emotività dello spettatore, giocandosi il tutto per tutto in quella partita di pura relazione. Non essere ascoltato è il rischio che ho conosciuto».

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Una delle cose più difficoltose dello scrivere canzoni è assegnare a esse il titolo. Così è nata “Un’altra canzone (12.02.2021)”, particolare per aver visto la luce in un giorno palindromo — palindromo è pure il numero di catalogazione (353). Attinge dalla mia vita, se pure mascherata e distorta nella scrittura; mischia amore relazioni e società, citando con leggerezza Luigi Tenco, Paolo Conte, Umberto Eco e Gesualdo Bufalino. È la prima che ho scritto in questo nuovo anno, nuovo anche dal punto di vista lavorativo, e il fatto di aver del tutto rinunciato — perché sono stato espulso — alla velleità di fare il cantautore di professione, fa sì che me ne fotta ancor più di prima delle mode dei segreti e dei trucchi per rendere una canzone accattivante in questa contemporaneità che, dal canto suo, se ne fotte dei cantautori.

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Ci abituiamo ai luoghi per almeno tre motivi: abitudine, amore e prigionia. E siamo nostalgici per cose che non abbiamo vissuto, persone, facce, tempi e spazi. Le canzoni sottolineano e distraggono, esaltano e mitigano, ci mostrano realtà passate e posti della memoria dimenticati negli anfratti del tempo.

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Scrivere, dopotutto differenzia noi bipedi dal resto del regno animale. Ne ha consentito l’evoluzione, perché evidentemente nasceva carente di per sé, ma anche l’involuzione scellerata. L’Homo sapiens, dal latino ‘uomo sapiente’, definizione tassonomica dell’essere umano moderno appartenente al genere Homo — di cui può vantarsi di essere l’unica specie vivente —, membro della famiglia degli ominidi e dell’ordine dei primati, ha saputo coltivare il sapere. E l’ha fatto attraverso la scrittura. Infatti, il sapere umano non è trasmissibile geneticamente o per eredità; si apprende con lo studio, con l’applicazione intellettuale, attraverso l’insegnamento e l’esperienza guidata. È fondamentale la conservazione mnemonica per non dover ripartire ogni volta daccapo, ma non basta la memoria dei computer per tramandarlo a un nuovo nato che si ritrovasse da solo nel pianeta in fiamme e ricoperto di plastica. Non saprebbe fare proprio niente, dovrebbe ripartire daccapo, dalla caccia, dalla ruota, dai geroglifici… Solo dopo qualche millennio imparerebbe a scrivere e scoprirebbe di poter sottomettere e sfruttare il pianeta, nonché i suoi famigliari bipedi pensanti, fino a trasformare la società come nella teoria della rana bollita di Noam Chomsky. Nel frattempo si avrebbero gli schiavi, i Gesù Cristo, i Che Guevara, le rivoluzioni, l’illuminismo, i Picasso, Omero e Dante, le guerre mondiali, i fascisti e i partigiani, i Beatles, Coppi e Bartali, i negazionisti, i nuovi schiavi, qualcuno che scriverebbe canzoni e lo chiamerebbero cantautore.

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Forse la notte l’ho frequentata assiduamente solo fino ai trent’anni, poi è diventata una compagnia da gustare diluita nel tempo, con parsimonia. Proprio oggi Erri De Luca scrive: “Questi sono i giorni di più lunga luce, intorno al solstizio d’estate. Il sole raggiunge il punto più alto sopra l’orizzonte”. In questo periodo, anche a me, capita di andare a dormire a cielo ancora chiaro. Mi sveglio quasi sempre all’albeggiare, ma ciò non dipende da stagioni e solstizi. “Le civiltà hanno scrutato il cielo e stabilito su di esso le ricorrenze. Costellazioni, eclissi, cicli di comete, fasi lunari hanno cadenzato la vita terrestre. I solstizi hanno ispirato feste, riti religiosi. La vastità senza fondo della notte ha fatto spalancare e alzare gli occhi in su, molto più che di giorno”.
In questi giorni di solstizio ho sempre scritto parecchi versi che poi ho cucito nelle canzoni, ma d’altronde la mia produzione è sempre stata più diurna che notturna. Insomma, la mia storia e quelle che racconto nelle canzoni sono più che altro storie di note e non di notte.

Annotazioni diaristiche a tutto il 22/06/2021