Articolo-intervista di Ottavia Pojaghi Bettoni per Wall Street International Magazine

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Un articolo e intervista di ampio respiro di Ottavia Pojaghi Bettoni, in uscita per l’Italia e per la Francia (Les nuages sont des bateaux morts laissés par les naufragesInterview à Nicola Pisu).
Si spazia su vari aspetti relativi alla canzone d’autore, dalle definizioni impossibili al senso dello scrivere in musica, dalla letteratura alla poesia, oltre che sul percorso artistico del cantautore, lasciando che affiorino ritagli di vita vissuta e immaginata.
Il pezzo di Ottavia Pojaghi Bettoni svela i significati celati, le storie dei personaggi, i treni deragliati e gli orizzonti sognati, che stanno dietro le canzoni, con un lavoro di tipo introspettivo.

Ottavia Pojaghi Bettoni, nota biografica
Nata a Stoccarda, ha vissuto in Germania, in Svizzera e in Francia. Bilingue italiano e francese, conosce inoltre l’inglese, il tedesco e lo spagnolo. Traduce il francese e l’inglese. È scrittrice e poetessa. Ha seguito da vicino gli ultimi progetti di Cristiano De André, De André canta De André e Storia di un impiegato, avvicinandosi al mondo della canzone d’autore e al rapporto fra musica, letteratura e poesia. È autrice, insieme a Alfredo Franchini, del volume “Questi i sogni che non fanno svegliare. Storia di un impiegato”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Arcana, e collaboratrice per le sezioni arte, letteratura e musica delle riviste “La città immaginaria” e “Wall Street International Magazine”.

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Sembrerò presuntuoso, ma sono persuaso che quella che faccio sia canzone d’autore. La canzone d’autore permette di ricondurci a reminiscenze e paesaggi che solo lentamente, con i piedi si possono godere.” Lentamente: lo dice Nicola Pisu, autore fedele ai “rappresentanti di prim’ordine”, ai “maestri” che, come lui, hanno ridato nuova vita a storie marginali (e non). Nuove storie che, senza premeditazione alcuna, hanno reso le persone, ‘personaggi’.
In origine considerati dilettanti, oppure scomodi e quasi sempre ignorati, molto spesso però specchi di una realtà tutt’ora attuale: personaggi che, oggi, non sono più solo leggende, non è solo Abacrasta, sono spunti dati in pasto al nostro quotidiano, stimolo alla fantasia e alla creatività. Nicola Pisu lo sa, ne professa il valore insito, ce lo insegna. Il suo ultimo album, Canzoni sparse, realizzato insieme a Roberto Corda nel 2018, è un’intensa narrazione, un lavoro-sorvolo sul passato, sì, ma anche la postulazione di un grande punto interrogativo. Il presente? Fa fatica ad afferrarlo, confessa. E così, seppur non voglia “perdersi nei meandri della verità umana”, coraggiosamente (inconsciamente?) lo fa: acconsente, spalleggia con le proprie paure, fa un patto con il misconosciuto, gioca con il contratto meno garantito: la passione. Passione per l’arte e per la verità dell’arte, per l’estetica delle parole e per la ricerca (non di un senso per forza, ma di un risultato che abbia un senso). Le leggende servono, oppure no, a decifrare la realtà? Non ne siamo certi, non è matematico. Quel che però sappiamo è che possono aiutare noi a farlo. Canzoni sparse è un inno alla vita inoltrata, al cerchio delle perpetuate sequenze di giorni sopraggiunti e di giorni a venire, è una testimonianza delle storie, inossidabili, narrate nei piccoli paesi, originariamente quasi sempre popolari, diventate poi chiavi di lettura universali. È un gioco, un percorso avventuroso nel dedalo nelle parole che nasce negli “allevamenti di polli” e tra “le rocce”. Un gioco che diventa scrittura al suo stato primordiale, in purezza. Scrittura in purezza che, come le nuvole, è naufraga.
Testimonianza, viaggio, immortalità. Che confina, miracolosamente convoglia la tecnica, ad essere ciò che l’artista della canzone d’autore, semplicemente definisce “valigia degli attrezzi”.

Viene definito “cantautore sardo di matrice classica”. Come spiega quest’accezione, “di matrice classica”?
Provo a rispondere sperando di non smarrirmi nei meandri dell’argomento alquanto vasto e serpeggiante. Anche se non sono uno studioso o critico del settore, posso dire che con “cantautore”, termine entrato in uso intorno al 1960, si indicano coloro che scrivono e interpretano le proprie canzoni, con certe caratteristiche intrinseche di forma e di contenuto.
Non significa che all’interno dell’insieme “canzone d’autore” ci siano solo espressioni stilisticamente simili, anzi, basti pensare ai rappresentanti di prim’ordine, ai maestri ignari delle generazioni future che avrebbero formato artisticamente: da De André a Guccini, da De Gregori a Dalla, da Vecchioni a Fossati, Lolli, Bubola, Testa, fino ai vari Capossela, Manfredi, Consoli, Malaspina… e l’elenco è ampliabile a seconda dei canoni artistici prescelti. Credo siano quelli i riferimenti precisi della matrice classica, aggiornata fino ai tempi nostri, per lo meno riguardo l’Italia, perché basterebbe rivolgere lo sguardo oltralpe e oltreoceano per intravvedere le sagome di Dylan, Cohen, Brassens, Brel, Baez, Smith, Cave, Waits, etc.
Sono convinto che la canzone d’autore non sia un genere musicale, ma per quanto mi sforzi per cercare possibili definizioni alternative continuo a non trovarne: non la si riesce a etichettare o a rinchiudere in un recinto. Occorrerebbe una specie di tribunale formato da critici musicali per giudicare cosa sia canzone d’autore e cosa no. Ma, al di là dello stabilire queste differenze, che non mi compete, se mi sono accinto a scrivere canzoni è grazie a molti di quei cantautori citati. Come previsto, vastità e soggettività della questione hanno fatto sì che questo sedicente cantautore si sia perso in un dedalo di definizioni e considerazioni.

Il suo percorso artistico inizia molti anni fa. Come si è evoluto nel corso degli anni, quali scelte ringrazia e quali invece rimpiange?
Sono nato e tuttora vivo in un paese di provincia del Sud della Sardegna. Suono la chitarra e scrivo fin da giovanissimo e, dopo varie esperienze musicali, mi sono addentrato nel campo della canzone d’autore, fino a restare impantanato. Nel frattempo mi sono laureato in ingegneria civile, attività che, a differenza della musica, mi dà da vivere. La letteratura ha spesso ispirato le mie canzoni, ma soprattutto ha favorito un certo affinamento delle tecniche, della valigia degli attrezzi, innescando in me un processo di cura nella scelta delle parole. Il mio primo lavoro discografico è del 2008, Abacrasta e dintorni, liberamente ispirato a due opere di Salvatore Niffoi, al quale sono seguiti altri quattro. Strada facendo, ho avuto alcune collaborazioni importanti per la mia crescita artistica e umana, a partire da quella con Don Andrea Gallo. Come palliativo ho tentato di inserirmi in qualità di autore ma, un po’ perché non possiedo le giuste conoscenze, un po’ perché anche quell’ambito è ristretto, un po’ perché ho la pretesa di rivolgermi solo a interpreti che apprezzo artisticamente, finora non sono riuscito nell’intento. Col mio quinto album, Canzoni sparse, ho fatto il consuntivo, per capire a che punto sono arrivato col proposito di fare il cantautore, ma mi pare di non averlo compreso. Non ho compiuto scelte particolari da ringraziare o da rimpiangere; certo, qualche treno l’ho perso ma, per tutti i treni persi e che perderò, ci sono stati e vi saranno tanti paesaggi che solamente andando piano, con i miei piedi, potrò ammirare.

In un’intervista precedente, accenna che il brano Del tempo racconta proprio di lei bambino, nato e cresciuto nel Campidano. Che ruolo hanno avuto e hanno ancora le sue radici nella sua scrittura?
Le radici e la storia di ciascuno di noi rappresentano ciò che siamo oggi e per chi si occupa di scrivere costituiscono un ricco bagaglio culturale da cui attingere. Del tempo la scrissi nei primi anni 2000, salvo riprenderla in mano in seguito: i versi sono pagine strappate dal mio diario, raccontano del bambino che sono stato, ma può riguardare tanti altri. Man mano che passano gli anni, i ricordi me li sento sempre più addosso, per quanto alterati e imprecisi, che pretendono di farsi evocare nitidi. Il brano dipinge un mondo visto con i colori dell’anima della fanciullezza, traducendo in versi reminiscenze nebbiose che disegnano visi inesatti, che oggi sono adulti.
Però, quel passato non c’è quasi più e, citando Guccini, oramai è come quando la luce se ne sta andando ma non è ancora buio. Le mie radici stanno in questo piccolo paese, coi suoi santi e il campanile, le strade strette, la campagna che lo circonda con colline incoronate di roccia lavica, il vento che annuncia il temporale, il venditore ambulante di polli da allevamento, le ragnatele tra i raggi della bicicletta. La mia scrittura nasce esattamente qui.

Qual è, per lei, il significato del verbo “spargere” (Canzoni sparse, ndr.)?
Con un po’ di bonaria saccenza rispondo che spargere significa versare più o meno uniformemente in punti diversi, qua e là, oppure, non ordinato organicamente. E questo era proprio il caso delle canzoni che sarebbero entrate a far parte di Canzoni sparse, che però, nel momento in cui è uscito l’album hanno cessato di essere sparse.
L’ambiguità semantica, il gioco di parole, ha ispirato il titolo del mio quinto lavoro discografico, citando in modo inappropriato, ma senza alcuna pretesa o similitudine, il sonetto che apre il Canzoniere di Petrarca: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono». Insomma, un doppio senso che poco ha a che fare col Petrarca ma che mi parve funzionale per raccontare e promuovere il disco.

Viene soprannominato “frequentatore quotidiano della pagina bianca”. Che importanza ha la stesura del testo nella sua operazione creativa?
Mentre in passato scrivevo tantissimo, ero un fiume in piena, oggi lo faccio con parsimonia e spesso vivo di rendita, riscrivendo canzoni che vent’anni prima consideravo belle e concluse, ma in realtà erano acerbe e appena cominciate. Comunque sia, non sono un frequentatore della pagina bianca, semmai di pagine annerite di appunti, di strofe isolate, di parole assonanti, di bozze brevissime in prosa e linee melodiche da sviluppare. Nonostante sappia bene quanto contino per la buona riuscita di un brano melodia e arrangiamenti, ho sempre sostenuto che il testo debba avere un’importanza pari o superiore alla parte musicale. Mentre per la parte dell’autore, quella letteraria, occorrono la giusta ispirazione (che viene quando le pare) e lo studio; per quella del compositore, la melodia musicale che sostiene il testo, occorrono la giusta ispirazione (che viene quando le pare) e la tecnica, ma si può intervenire efficacemente in una seconda fase, quella degli arrangiamenti, che vestono, colorano e abbelliscono l’architettura del pezzo se curati da abili musicisti.
Però, tornando alla domanda, scrivo quando ho qualcosa da dire, da comunicare, quando ne sento l’urgenza o quando l’ispirazione (che viene quando le pare) mi mette con le spalle al muro, o meglio, con la chitarra sulla coscia, davanti a un tavolo con una penna e un foglio bianco. Ho la fortuna di scrivere spesso simultaneamente testo e musiche, per lo meno di imbastirli nello stesso tempo, ma poi le mie attenzioni maggiori le rivolgo alle parole, a significati e significanti, alla forma metrica. A volte mi servo di rime, gioco con le simmetrie e gli incatenamenti dei versi, pesco parole, riuscendo a esprimere ciò che avevo in mente; altre volte è più difficile servirsi di una metrica precisa, che ingabbia, e vado a cercare semplici assonanze e allitterazioni.

Dieci anni di musica, dieci anni di Canzoni sparse. Dieci anni racchiusi in questo album. Lei stesso suggerisce: “Più che una misera celebrazione di sé, a dieci anni dal primo album, Canzoni sparse rappresenta una sorta di punto zero, da cui ripartire o dove fermarsi definitivamente.” È un punto zero di ripartenza oppure di fermo, è riuscito a comprenderlo?
Non ci sono riuscito affatto e semmai i dubbi sono addirittura aumentati: con Canzoni sparse ho solamente riavvolto il filo sul rocchetto, senza comprendere granché di quanto finora fatto e di cosa vorrei ancora costruire. Sembrerò presuntuoso, ma sono persuaso che quella che faccio sia canzone d’autore. Le mie canzoni hanno riscosso un certo apprezzamento di critica, ma non commerciale, condizione che mi relega in una nicchia. In questo incavo o rientranza del settore (che brutta definizione!) non sono tuttavia solo, bensì in ottima compagnia di diversi cantautori sicuramente più bravi di me, ma ignorati o sottovalutati, comunque estromessi dal mercato.
Parafrasando Pasolini, produco canzoni, le quali non sono consumabili, e ciò fa sì che non siano definibili merce. Fortunatamente ho un piano B per sostenermi economicamente, che mi consente di inseguire l’obiettivo perseguito della musica senza perire affamato nel percorso lungo e tortuoso.

Mi incuriosiscono i titoli che ha dato ai suoi brani. Rimandano con evidenza al cantautorato di un tempo, alla sua connotazione popolare. C’è un legame tra i personaggi che sceglie, un fil rouge che li unisce? Cosa li conduce, quale simbologia, morale se c’è, racchiudono?
Se lavoro con dedizione sui testi delle canzoni, con i titoli ho un approccio molto più sbrigativo, anche se un minimo ragionato. I criteri sono svariati, ma spesso la scelta risponde al requisito che individuino il soggetto della canzone, come possibili chiavi di lettura. In qualche occasione il titolo sta lì, fin dall’inizio, come un’ancora sul fondale. Altre volte, prima di sceglierlo, ne annoto un paio come promemoria, rimandando il vaglio definitivo al momento delle pubblicazioni ufficiali.
Le morali preferisco che siano affidate, se proprio si vogliono trovare, agli ascoltatori. Io, per quanto possibile, provo a starne fuori, ad astenermi dai giudizi e dai moralismi. I personaggi di cui raccontano le mie canzoni in qualche modo mi somigliano, anche se cerco sempre di lasciare il mio pensiero ai margini, senza inficiarle. È del tutto vero, come diceva Pirandello, che essi — i personaggi — tendono a prendere possesso della scena narrativa, ma devono continuamente lottare contro l’intromissione dell’autore per ritagliarsi uno spazio autonomo. Mi è capitato di scontrarmi con certi personaggi di fantasia, addirittura deprecabili, coi quali non ho assolutamente nulla da spartire. Invece, quando scrivo testi autobiografici, tento di mascherarli e di abbellirli con metafore e narrazioni barocche, per rendere irriconoscibile il protagonista che, in quel caso, coincide con l’autore.

In Abacrasta si rifà a La leggenda di Redenta Tiria di Niffoi, leggenda che vede protagonista proprio Abacrasta, una città invisibile dove si muore, certo, ma mai di vecchiaia. Ce la può raccontare?
Un giorno d’aprile del 2007 Salvatore Niffoi, scrittore Premio Campiello nel 2006, chiamò a casa per complimentarsi e ringraziarmi per la canzone Abacrasta, che trassi dal suo romanzo La leggenda di Redenta Tiria. Rimase stupito dalla capacità di sintesi e dalle atmosfere create. Qualche tempo dopo, convinto da alcuni amici, partecipai alla presentazione di un suo libro e imbarazzatissimo mi presentai personalmente allo scrittore. Chiacchierammo un po’ ed egli suggerì di realizzare un concept album tratto dalla sua opera. L’idea mi piacque e nel 2008 pubblicai il lavoro discografico Abacrasta e dintorni, liberamente ispirato a La leggenda di Redenta Tiria e a Il viaggio degli inganni. Le storie di Abacrasta e Oropische, paesi immaginari dell’opera immaginifica niffoiana, si mischiano nelle tracce del disco. È presente come filo conduttore questa inquietante realtà: “tutti gli uomini, arrivati a una certa età, si slacciano la cinghia e se la legano al collo. Le donne usano la fune”. Si salvano solo alcune persone grazie all’incontro con Redenta Tiria, una donna cieca, scalza e coi capelli corvini, che taglia la lingua a quella Voce che dice loro di farla finita: un’allegoria della speranza. Nel mio album, avendo mischiato i personaggi di altri toponimi immaginari dei dintorni di Abacrasta, si incunea anche una storia d’amore inattuabile fra un giovane anarchico (così l’ho trasfigurato nella mia rilettura) e una novizia suora, nonché il grido della miseria, la dignità e l’orgoglio delle donne.

Nei suoi brani affronta un tema inossidabile, importantissimo e, purtroppo tutt’oggi di grande attualità: la violenza. C’è qualcosa che la musica fa per sopperire al problema della violenza? Gli artisti hanno, oppure no, un ruolo (di dissidio) da vestire in questa battaglia?
Per quanto riguarda la violenza strutturata, la guerra, essendo stato per quindici anni dentro l’organizzazione umanitaria Emergency, ho le idee abbastanza chiare: essa produce solo morte, feriti e distruzione, dove il nemico che soccombe è quasi sempre un civile e spesso porta il pannolino e il ciuccio. Credo che gli artisti abbiano un ruolo importante nel far riflettere le persone su certi argomenti, nel puntare i riflettori. Non sempre, però, il messaggio viene compreso e capita addirittura che venga strumentalizzato e usato a proprio uso e consumo. Faccio un esempio riferendomi a un fatto abbastanza recente: un bullo con troppi poteri glorificava un pescatore con un solco lungo il viso che spezza il pane e versa il vino e, contemporaneamente, imponeva l’assurda chiusura dei porti lasciando centinaia di persone sofferenti in balia del mare. Vedi, sono convinto che le canzoni siano un importante strumento di comunicazione e di narrazione dell’epoca in cui si vive, però, in fin dei conti, non sarà con le canzoni se qualcosa cambierà nel mondo. Per cambiare veramente le cose, dal mio punto di vista, bisogna fare, non basta l’arte; non per questo un artista impegnato dovrebbe rinunciare al proprio ruolo antropologico e sociologico, altrimenti ci rimarrebbero soltanto le canzonette da ballare e i ritornelli dei tormentoni estivi.

Nel cielo sia vede origine nell’opera di Marcello Fois Quasi Grazia. Come mai questa scelta? Esiste una sinergia tra letteratura e canzone, un legame cosciente tra ciò che un cantautore legge e ciò che scrive?
Il testo della canzone si concentra sul dialogo immaginario fra Grazia Deledda e la propria madre, nato dalla penna dello scrittore Marcello Fois. Grazia Deledda, il soggetto della canzone, era una scrittrice di impetuoso talento, che in maniera straordinaria ha dipinto l’aspro paesaggio della Sardegna tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Come a volte mi capita, leggendo il romanzo di Fois, fin dalle prime pagine ho cominciato inconsciamente a strutturare la canzone, ricavando un groviglio di appunti e foglietti che a fine libro ho messo in bella cucendoli su una melodia in la minore.
Come ho già detto, fin dal principio, con Abacrasta e dintorni, le influenze letterarie si sono rivelate determinanti nella mia scrittura in musica. Nei dischi successivi sono presenti altri brani di estrazione letteraria, che hanno importunato Savina Dolores Massa, Álvaro Mutis, Giuseppe Dessì, Italo Calvino e, appunto, Marcello Fois. Fra le tante canzoni ancora inedite ce ne sono che si ispirano agli scritti di Gabriel García Márquez, Edgar Lee Masters, Louis-Ferdinand Céline e Salvatore Satta, oltre che di qualche poeta e poetessa. Insomma, la reiterazione del mio comportamento è ampiamente documentata, ma lo faccio solo per amore della letteratura e della poesia, finestre spalancate sul mondo dalle quali mi affaccio assiduamente. Non credo che il legame fra ciò che leggo e che scrivo sia cosciente, ma certamente ciò che sono, uno scrittore di canzoni, lo devo a quanto nel corso della vita ho letto e vissuto.

Le leggende, i racconti tradizionali servono ancora a decifrare il mondo di oggi?
Di sicuro affascinano, anche se non sempre sono utili a decifrare il mondo; anzi, delle volte possono allontanare, distrarre dal vero, distorcere. Però, rimane la bellezza del racconto, a prescindere che si tratti di storie accadute realmente o che siano frutto della fantasia: raccontando sospendiamo il tempo e questo mi pare abbastanza utile di per sé. E poi, costa poco far finta che i fatti narrati siano realmente accaduti, almeno per il tempo in cui si è immersi nella lettura o nell’ascolto. Ciò vale per i libri, per le canzoni, come per il teatro. Ad esempio, credo che leggere certi racconti di Márquez o di Calvino non possa che far bene, senza la pretesa che tutte le vicende siano veritiere. Nell’assurdità di certe storie surreali capita pure che si trovino spunti per decifrare la realtà. Per non parlare dei benefici di favole e racconti per bambini, che non solo agevolano l’incontro umano fra chi narra e chi ascolta, ma stimolano fantasia e creatività, oltre a trasmettere qualche insegnamento filantropico. Io, per esempio, sono più di quarant’anni che rifletto su quanto sia triste e avvilente la sorte di Cenerentola, che dicono essere il lieto fine, e sul suo benessere plantare.

“Sono certo che anche qualora decidessi di smettere con le canzoni, sarebbero loro a ributtarmici dentro, prendendomi per i capelli”, scrive. È la musica dunque, a chiamare l’artista a sé? O è l’artista a far uso di un mezzo, la musica, per esprimere se stesso? In altre parole: è la musica a scegliere la persona, o la persona a scegliere la musica?
Domanda complicatissima per la quale non ho risposte plausibili. Credo vi siano diverse possibilità che fanno sì che si faccia musica e, da ciò che si sente in questi ultimi anni, che non sempre ciò avvenga per merito di particolari doti naturali o del talento; spesso c’è la tecnica, che però la si acquisisce anche studiando, a volte nemmeno quella. La scrittura di canzoni — è solo la mia opinione —, che lo si voglia o no, è spesso un’urgenza, un processo incalzante e indifferibile. Non penso sia diverso per chi scrive racconti o poesie. Non è un’attività con finalità esclusivamente estetiche. Essendo l’esigenza di comunicare, di raccontare, una necessità primaria dell’essere umano — che gli ha consentito di svilupparne la specie —, scrivere canzoni, come scrivere storie o poesie, risponde a prerogative simili. Resta il fatto che ci sono canzoni, storie e poesie stupende e altre di poco pregio, e così dicasi per gli autori.
In conclusione — avevo preannunciato di non possedere risposte logiche — io non ho mai scelto di scrivere in musica, ma è diventato il mio vizio più longevo. E ora mi ritrovo con cassetti pieni di sogni, di dubbi e di canzoni.

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