CANZONI MIGRANTI
Migrante, secondo i vocabolari De Mauro e Treccani, è un aggettivo. Non è indicato come sostantivo, anche se in questo Medioevo lo sta diventando con forza.
Ma, migrante è soprattutto il participio presente del verbo migrare, indica un’azione, quella di colui o colei che migra, che si sposta, che lascia il luogo di origine per stanziarsi da altre parti, che può interessare animali e uccelli, come interi gruppi etnici o popoli. Da evento fisiopatologico a evento sociopolitico ed economico.
In Italia è un fenomeno che ha interessato inizialmente il settentrione e poi, dopo il 1880, anche il Mezzogiorno, oltre ai fenomeni migratori interni, compresi tra i confini geografici del Paese.
Negli anni ho scritto varie canzoni sul tema, di immigrati e di emigrati, la prima delle quali parlava di me, dei miei propositi futuri, ossia di terminare gli studi per emigrare altrove a costruirmi una vita; si intitolava “Canzone della libera espressione”, ma oggi salvo a malapena la parte musicale.
Poi, venne “Seconda classe”, la cui musica è di Giancarlo Sanna, che nella formazione dell’epoca, i Suoni e Rumori Popolari, suonava la batteria e il corno (ottone per il quale si era diplomato al conservatorio di Cagliari). Il testo lo scrissi dopo aver letto una colonna su un quotidiano, forse del Manifesto, che raccontava di un giovane emigrato del sud che si trasferì in Emilia Romagna alla ricerca di un lavoro, ma che non essendoci riuscito si tolse la vita in una casa dello studente dove era ospitato da un amico. Se non erro si era impiccato con una fune legata a una trave della camera. Trovo che la parte musicale sia di una semplicità estrema, ma per questo bella, mentre il testo risente di una serie di ridondanze e ingenuità giovanili, motivo per cui anni dopo ho provato a riprenderlo.
Nello stesso periodo, a quattro mani con un altro amico, o meglio, lui scrisse quasi per intero un testo che io rivoluzionai e musicai, scrissi “La ballata degli emigrati”, che raccontava dei nostri emigrati economici, categoria oggi particolarmente criminalizzata: Sono partiti tanti anni fa / e ti amavano più che vita / sono partiti per lavorare / e la speranza di ritornare / Dentro il mare su navi grandi / occhi bagnati i tuoi italiani / torneranno forse un domani / a pianger parenti o ad esser pianti.
È inspiegabile come l’Italia che, a partire dalla fine del milleottocento, ha visto partire all’estero decine di milioni di cittadini alla ricerca di lavoro e fortuna, non riesca a capire i bisogni degli immigrati che si riversano nelle nostre coste, scappati dalla miseria e dalle tante guerre. I nostri emigrati partivano ammassati nelle stive dei piroscafi, da Genova, Napoli, Le Havre; questi nuovi migranti si imbarcano invece su gommoni fatiscenti e vecchi pescherecci e non sempre riescono ad attraversare quella striscia di mare.
Eppure, molti figli degli italiani di oggi sono un po’ come i loro bisnonni di inizio novecento: intraprendenti, che non si arrendono e nonostante le difficoltà partono all’estero per realizzare la loro vita attraverso il lavoro, migranti economici che lasciano un pezzo di cuore nella terra natia e un pezzo lo trapiantano a Londra, Berlino o dove riusciranno a farlo. Lo sanno bene i ragazzi e le ragazze della Sardegna e del meridione italiano. Però, quelli tunisini o senegalesi, emigrerebbero dalle loro terre solo per sfizio e, oltretutto, non sfuggirebbero nemmeno da una piccola guerra! Lo farebbero solo per realizzarsi dal punto di vista economico e lavorativo, una pacchia! Secondo molti italiani, questi ragazzi, per noi immigrati, feccia erano e feccia rimarranno, da respingere, far affogare nelle attraversate in mare, rinchiudere e incarcerare, o al massimo rimpatriare dopo averli sfruttati nei campi dell’economia sommersa nostrana.
È probabile che per qualche politico o ministro dell’inferno e delle interiora, che brandisce ipocritamente il crocifisso, Gesù Cristo sarebbe stato un vero incubo: un rifugiato che sapeva camminare sull’acqua.
“A Semira A.” la scrissi nel ’98 e raccontava la tragica vicenda di Semira Adamu, giovane donna nigeriana, soffocata con un cuscino da due agenti della polizia belga, mentre protestava e si ribellava disperatamente contro l’espulsione forzata via aereo: Europa messa a nudo / dalla propria vanità / Europa che indossa / il vestito più nero che ha.
Fra le altre canzoni, vennero “I treni per il mondo”, “Del poco che avanza”, “Siamo noi questa gente oltre frontiera” e siamo giunti alla fine del secondo millennio d.C., dal quale uscii quasi indenne: Siamo noi il fiato che hai in bocca, sagome alla deriva / nella luce quasi opaca del giorno che non arriva / fiori pronti a trapiantare che ci abbracciano le onde / dov’è la terra da camminare / dopo il fischio delle bombe.
“Atlantico” è ancora una canzone che parla di emigranti italiani in Sud America: Un buon uomo dei dintorni / m’ha trovato da lavorar / di braccia e sudore / per quelli della ferrovia / guadagnare ancora poco / ma si mangia tranquillamente / e spiccioli da metter via / e ti penso intensamente / bye, bye, bye, quando mi raggiungerai / bye, bye, bye, è l’oceano d’attraversar.
Anche “Marianne e i colombi” sfiora il tema, mediante il racconto della vita quotidiana di una immigrata stanziatasi in Italia, integrata, donna che incontrai alcuni anni fa in un Parco a Cagliari, mentre trascorrevo qualche minuto in una panchina. Guardavo l’acqua scorrere nel fiume artificiale e l’alveo era quasi asciutto. Di spalle a me stava una donna, probabilmente dell’est Europa, che mangiava una fetta di pane e di tanto in tanto lanciava molliche ai piccioni. Annotai alcuni versi nel taccuino mentre pensavo che attorniarsi di piccioni schiamazzanti fosse un modo per non sentirsi sola; il buttare a terra pezzi di pane come uno scaricarsi delle fatiche quotidiane, e il volo dei colombi l’ho interpretai come un arco della memoria che avrebbe collegato il suo presente qui e il suo passato altrove e lontano.
“Ospiti”, del 2011: Questi ospiti vocianti con cicatrici nei sorrisi / con sguardi spaventati / i polmoni pieni di cielo e gli affetti bruciati / Questi ospiti silenziosi con le parole conservate / imparate a memoria / per dire grazie e ˊscappo daˋ / raccontare la storia.
“Pensa al ragazzo” la scrissi invece nel tentativo di affidarla a qualche interprete, ma l’operazione non riuscì, anche perché puntavo come minimo a un Gianni Morandi.
Infine, ma certamente qualcuna mi sarà sfuggita, di recente ho scritto “Mio figlio è orfano”, che nasce con il gioco di parole dei versi usati come ossimori, paradosso che ricorda Rino Gaetano, ma in realtà si ispira a Fossati e a quel suo fratello che guarda il mondo. Il tema principale è l’umanizzazione che dovrebbe riguardare tutti e, di riflesso, le migrazioni per scappare dalle guerre, dalle dittature, dalla miseria o, semplicemente, per ricercare la dignità di un’esistenza degna di essere vissuta.
Anche per questa canzone, inizialmente pensavo a un interprete famoso, come minimo Mannoia, ma, non essendo riuscito a trovare alcun contatto, mi sono presto rassegnato a cantarla da me.
Però, al di là delle canzoni, sono convinto che quando un Governo riesce a convincere la classe disagiata del proprio Paese, i poveri, che la causa del suo male sono gli immigrati che arrivano con i barconi, allora ha creato un un’opera d’arte e sarà facilissimo convincerla che la mafia non esiste, che i capi di concentramento sono stati un’invenzione e che gli emigrati italiani dei primi del ‘900 erano richiesti dall’America e dal Belgio. E allora, anche le contraddizioni diventeranno invisibili, come ad esempio il sostegno integralista ai valori della famiglia, al crocifisso in aula e al presepe, accostate all’ostilità ad altri messaggi fulcro dell’etica cristiana come «Ama il prossimo tuo come te stesso».
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