_DELLA GIOVINEZZA E DEI MIEI ANNI DA STUDENTE

DELLA GIOVINEZZA E DEI MIEI ANNI DA STUDENTE

Ci vogliono due anni per imparare a parlare e cinquanta per imparare a tacere.
(Ernest Hemingway)

Ogni tanto penso, perché quei giorni li ricordo con affetto e un po’ di nostalgia, agli anni in cui abitavo a Cagliari, prima nella casa dello studente e poi in un appartamento a Stampace, quartiere storico e un poco decadente, che riproduce il microcosmo del piccolo paese. Tutti i coinquilini che si sono susseguiti sono stati una piccola famiglia, via via con attriti e innamoramenti, infatuazioni e distacchi propri dell’età in cui li ho vissuti. Della casa dello studente di via Biasi ricordo decine e decine di facce illuminate dal riflesso delle lampade da scrivania, di ragazzi e ragazze indaffarati che camminano di fretta verso l’università o la mensa, di gruppi chiusi dediti alla preghiera o alla politica, di canzoni suonate in cucina o sul letto della camera. Di Stampace, di quella viottola che scende verso il porto, delle palazzine con facciate fatiscenti dalle quali affiorano i fantasmi del passato che hanno lasciato le impronte sui muri, con gli intonaci colorati ormai sbiaditi e scrostati, ricordo tanta umanità. Il proprietario affittava l’intero appartamento, composto da cinque o sei camere, qualcuna con la finestra che si apriva nella fetida chiostrina, con i solai lignei imbarcati e rumorosi, a prezzi decisamente al di sopra del valore reale. Una camera la lasciava libera per le sue venute a Cagliari, per riscuotere gli affitti, puntualissimo e con un’agendina su cui annotava ogni entrata ed eventuale ritardo nei pagamenti.
Stampace è uno dei quattro quartieri storici di Cagliari, un tempo abitato da artigiani, mercanti e dalla piccola borghesia cittadina, ma già all’epoca in cui mi riferisco frequentato e vissuto da studenti universitari e operatori del vicino ospedale civile. La finestra della mia camera distava quattro metri al massimo da quella di Alma, una prostituta albanese, per cui si osservava un via vai di giovani ragazze, spezzato a volte dall’irruenza del magnaccia indigeno. Qualche notte è capitato che si sentissero le urla del protettore ubriaco e scontento per chissà quale comportamento di Alma e compagne.
Venti metri più giù dalla palazzina dove abitavo, nell’incavo delle pareti dell’ex cinema dei gesuiti, in un giaciglio di stracci e cartoni, si era stabilito il clochard che soprannominai “Barba bianca”. Poco più in là, dove si sentiva già il profumo del porto, vagava una donna che si vestiva con buste della spazzatura e beveva i fondi delle bottiglie di vino e liquori buttate dalle trattorie. Nel bar sotto il balcone della mia camera trafficava il politico affetto da arrivismo compulsivo, che in seguito la magistratura avrebbe messo sotto inchiesta per peculato. Insomma, c’era a portata di mano un vasto campionario di umanità che nel tempo misi in musica. Le mie letture, in quel periodo, divennero abbastanza assidue. Scoprii allora Gabriel Garcia Marquez e Ernest Hemingway. Misi in disparte, senza però abbandonarla, la musica rock che fino a quel momento ascoltavo, scoprii Tom Waits e Leonard Cohen, e, oltre a Guccini che mi accompagnava da diversi anni, approfondii De André, Dylan, la musica jazz, la classica, il progressive, quella popolare ed etnica. Il primo verso della poesia La Musique di Baudelaire riassume bene il mio rapporto con la scrittura in musica del periodo: “Spesso la musica mi porta via come fa il mare”.
Antonio Gramsci scrisse che la coscienza di classe avrebbe dovuto forgiare la nuova classe proletaria e io, figlio di un muratore e di una casalinga, forgiavo allora le mie idee politiche. Mi consideravo a pieno titolo appartenente a quella classe sociale: mi ritenevo comunista, ma non mi sarei mai abituato all’esercizio del potere, anzi, ben presto mi sarei staccato definitivamente da quell’etichetta politica. In questo passaggio, furono determinanti le canzoni come locomotive lanciate a bomba contro le ingiustizie.
Nell’appartamento sgangherato di Stampace, di coinquilini ne entrarono e uscirono di ogni tipologia. Riecheggia nella memoria il tassista abusivo che lavorava solo la notte, principalmente per trasporti di persone verso e dalle zone dove lavoravano le prostitute. Chissà se incontrava Alma.
Con qualcuno instaurai un bel rapporto di amicizia, fatto di piccole cose, consumato cucinando e mangiando ogni tanto insieme. L’impressione è che ci si volesse bene. Promettemmo di non perderci di vista, di reiterare le nostre cene e le allegre chiacchierate. Oggi posso dire con certezza che quelle promesse sono state disattese, perché solo raramente ci siamo rivisti, e quasi per caso. Di altri non ho invece mai più avuto notizie, ma ogni volta che passo a piedi in via Ospedale, all’altezza di quel numero civico alzo gli occhi al primo piano, a quel balcone su cui si apre la portafinestra davanti all’appartamento in cui alloggiava Alma.
Credo, ma non posso certificarlo, di essere affetto da prosopagnosia, termine che deriva dall’unione di due parole greche, faccia e ignoranza, e consiste nella difficoltà di riconoscere i tratti dei volti delle persone. Questo, per me è fonte di enormi equivoci e, seppure rincontrassi qualche amico o amica di quei tempi lì — evento già accaduto —, rischierei di non riconoscerlo, comunicando un antipatico distacco affettivo. Le canzoni che ho scritto negli anni a venire mi hanno permesso di conservare qualche sfumatura o dettaglio di quei tempi, ai quali sono profondamente legato. Sarà perché era la giovinezza, passata come un soffio nelle strade ciottolate della città che mi prese con sé. Dal punto di vista artistico, in quel fine secolo stavo terminando la mia “carriera” nei Lesbicah Hiroshima, avevo già messo su i Suoni e Rumori Popolari, suonato col Canzoniere del ‘900 di Clara Murtas e, soprattutto, mi stavo trasformando in un semplice scrittore di canzoni.
Lasciai Cagliari quando stavo per concludere gli esami di ingegneria, ma esattamente un anno prima della laurea, era un giorno di fine ottobre, ci dovetti tornare a forza, proprio nell’ospedale da cui prendeva il nome la via di cui ho raccontato.
Se mi osservo in una fotografia che ferma istantanee di quella gioventù, come istantanea è la gioventù, il sorriso non mi pare cambiato, però, in questi anni è cambiato tutto il resto intorno. Oppure, sono cambiato solo io o solo noi.

Parole disciolte nel vento
e sorrisi esposti in vetrina
il sole che illumina tutto
proprio tutto, tranne gli angoli più oscuri
la vita scorre dal Corso al Largo
e non ha nessuna intenzione di aspettare
ma tu segui la tua strada
e non voltarti a contemplare alcun passato
(“Canzone per Gianni”, ex “Vivi” dei L.H., 1993)

©2014