DI UN NECROFORO E DI UN CANTAUTORE
«I familiari restano ancora attorno al feretro, prima che noi ci muoviamo.
Il marito e la figlia sono vicini, che lo guardano.
Lui sorride.
– Papà… tu ridi – Fa lei.
La tira a sé, le dà sui capelli un bacio posato, poi la guarda forte – Mi tornano a mente solo ricordi belli – Le dice.
E io che sto davanti, non riesco a smettere di stupirmi, da dietro uno sguardo velato, di quanto amore la morte lasci galleggiare.»
[Galleggiare, Marco Frosali, 2019]
Da un anno o poco più ho scoperto un blog affascinante. Nonostante gli argomenti siano apparentemente ostici, in quanto ruotano attorno alla fine delle vita, l’eleganza narrativa e la scrittura dell’autore li restituiscono come splendide tristezze, come certi fiori posti nelle tombe dei nostri cari. Sì, perché l’ambiente in cui si svolgono i racconti è il cimitero, luogo in cui sono sepolti i corpi e deposte le ceneri delle persone morte.
La parola cimitero significa luogo di riposo, dormitorio, e deriva da κοιμάω, mettere a giacere; il verbo koimân equivale pressappoco a “fare addormentare”. Infatti, spesso, per convincerci e consolarci, capita di dire davanti a una persona morta: «sembra che dorma».
Quindi, il campo nel quale galleggiano le storie è vagamente lugubre, ammollato nel dolore, ma la potenza stilistica di Marco Frosali le dipinge con maestosa squisitezza e straziante dolcezza.
Il blog si intitola Il diario di un necroforo e, dal mio modesto punto di vista, si presterebbe bene per un libro di racconti.
Circa sei anni fa, il grafico che curò un mio lavoro discografico, che per pagarsi gli studi lavorava a chiamata per un’agenzia funebre, mi raccontava aneddoti legati ai funerali, che mi affascinavano. Non che non vi avessi mai assistito, ma i retroscena furono per me sorprendenti e fonte di ispirazione — tanto per cambiare — per una canzone, ripresa nel tempo: “Un necroforo”.
Prevedo una chiamata
a guastarmi la serata
fare il necroforo
ti succhia la vita
il tempo e le donne
perché non decidi tu
quando uno va a spirare
e di colpo non c’è più
Chi porta via i morti, un tempo detto becchino, prima ancora fossore, persona addetta a scavare le fosse sepolcrali; adesso diciamo necroforo o semplicemente operaio comunale addetto all’apertura del cimitero e alle relative operazioni funebri. Frequentemente, con campi di inumazione, tumulazioni, cellette per urne cinerarie, liquido cadaverico, carbonella vegetale per neutralizzare gli effetti dei gas prodotti dalla decomposizione, ampliamenti, blocchi loculi su più file, processi di mineralizzazione delle salme da parte del terreno, vincoli monumentali e via dicendo, mi devo confrontare per motivi professionali: in un certo senso, sono abbastanza preparato a quella parte dell’esistenza.
Noi delle pompe funebri
perfetti negli abiti
viviamo realmente
in precari equilibri
e non c’è nulla da ridere
o da far l’occhiolino
capita di perire
per questo c’è il becchino
Noi delle pompe funebri
conduciamo i feretri
fino al cimitero
impediamo i recalcitri
non mordiamo l’alluce
non portiamo sfortuna
capita di morire
forse questo ti fa paura […]
Oggi quel mio collaboratore ha cambiato mestiere, ma sempre col cielo ha a che fare: è stewart in una compagnia aerea.
Mi è capitato di incrociare Marco Frosali, di fargli sentire una bozza della canzone cimiteriale e l’intero album Canzoni sparse, che ha definito «una prova di grande personalità nel solco della tradizione cantautorale italiana», specificando che le sue potrebbero essere solo un arrocco di parole scontate, ma non avrebbe saputo come dirlo altrimenti.
Non di certo per ruffianeria o come atto gentile per restituirgli i complimenti, sono convinto che dalle storie che Marco racconta nel diario di un necroforo affiori molta poesia, come l’acqua dalle rocce, come le erbe infestanti che si sono adattate a crescere ovunque e invadono i cimiteri, beffarde, accanto ai fiori portati dai parenti dei defunti, sotto una pioggerella insistente. A sfidare la morte o a farle compagnia.
©2019