_EXCURSUS SUL MIO PERVERSO RAPPORTO CON I SOCIAL

EXCURSUS SUL MIO PERVERSO RAPPORTO CON I SOCIAL

Credo che oggigiorno abbia poco senso parlare di privacy: con l’affermazione dei social network la vita di ognuno di noi è in vetrina, su un piedistallo, perfettamente giudicabile e controllabile. Sia chiaro, la mia affermazione è valida fino al revenge porn, non oltre.
Ho sempre remato contro questa tendenza tecnologica, che alcuni dicevano avere un’importanza realmente sociale, poi, evidentemente, la mareggiata mi ha sbattuto a terra e inglobato nelle sue acque torbide e tumultuose.
«Il bello dei social è che le persone possono finalmente riunirsi, coordinarsi e lottare in maniera unitaria contro il sistema» diceva una mia amica, che prendeva ad esempio la Primavera araba per cercare di convincermi a ˊiscrivermiˋ.
Ora, quella stessa amica dice che «Il bello dei social è che cadono le maschere e vengono fuori tutti i razzisti che nella vita reale non riconoscevi, perché non si svelavano». E su quest’ultima constatazione sono pienamente concorde, ma oltre all’aspetto antropologico mi interessa anche il risvolto ˊpromozionaleˋ della faccenda, perché per una persona che si occupa di musica è proprio quello il punto.
Per comprendere il mio rapporto con essi bisogna però tornare indietro nel tempo, al medioevo della rete fra musicisti, quando, nei primi anni 2000, nacque Myspace e successivamente SoundCloud, comunità virtuali riservate al settore musicale e ai musicisti, che permettevano contatti, collaborazioni, promozione e distribuzione. Erano frequentate prevalentemente da musicisti, ma anche da discografici, produttori, critici musicali e semplici appassionati. Gli utenti erano quindi, tutto sommato, una esigua minoranza rispetto alla popolazione: aspetto normalissimo, visto che non sono tante le persone che seguono la musica, come la pittura, il ciclismo, la politica, l’arte, etc.
Infatti, poco dopo il lancio di Facebook (e in minor misura di Twitter), social network per eccellenza, quelle piattaforme ˊobsoleteˋ sono diventate praticamente luoghi deserti, dove al massimo si incontrano prosperose e provocanti ragazze che promettono incontri o uomini esperti di investimenti finanziari.
Uso Facebook perché oggi è l’unico spazio dove possa proporre la mia musica, ma sono consapevole che fra tutti gli utenti, nonostante la stragrande maggioranza condivida musica che ha sempre ignorato, siano pochi quelli interessati veramente a sentire ciò che faccio. Conosco personalmente delle persone che scrivono RIP per i musicisti scomparsi, ma che non possiedono nemmeno un LP o un CD, oggetti nel tempo divenuti anacronistici. Ho un amico che si è detto affranto per la morte di Cohen, ma dubito che conosca più di “Hallelujah” cantata da altri. Non credo si tratti di un’eccezione, bensì di una prassi diffusa e questa mia consapevolezza è desolante, considerato che ho migliaia di amici virtuali e ancora solo un pugno di amici reali. Non intendo con ciò fare di tutta l’erba un fascio, ma suppongo che al di là delle generalizzazioni, sempre sterili, un fondo di verità probabilistica vi sia.
Tornando all’excursus storico di questa trattazione, la mia pagina artista su facebook la creò forzatamente un caro amico, dicendo che non se ne poteva più fare a meno, ché «un conto è essere disadattato nella vita di ogni giorno, possedere un telefonino Nokia con i tasti che non si collega a internet, e un altro è scrivere canzoni e impedire che possano essere ascoltate dagli agli altri, come se fosse una sorta di masturbazione cerebrale, che genera godimento solo a me, ma di nascosto».
Nel 2013 proprio questo amico creò la pagina artista su Facebook e l’account collegato, necessaria per la sua gestione, che risultava intestato a Maria Maddalena. Egli pubblicava le recensioni che stavano sparse nella ragnatela del web, qualche notizia sul mio lavoro, sotto il mio controllo a distanza. Poi, forse si stancò di farmi da segretario o io decisi di assumermi l’impegno, e cominciammo un periodo di amministrazione condivisa della pagina, che dopo un anno o poco più assunsi in piena autonomia.
Il mio primo post, poco accattivante, più o meno fu questo: «Attenzione! Non uso Facebook. Semplicemente, questo account è finalizzato alla gestione della fan page di Nicola Pisu, cantautore, me medesimo, che aggiorno con la collaborazione di un amico».
Oggi, con la piccola esperienza maturata in questo campo, per quanto utilizzi Facebook distrattamente e solo per pubblicizzare le mie canzoni, credo di poter affermare che se sui social le persone scrivessero solo ciò che sanno e comprendono, allora i social stessi sarebbero già morti da tempo. Memorabile la considerazione di Eco: «hanno diritto di parola legioni di imbecilli».
Gli aspetti positivi di questi strumenti? I contatti che si possono reperire, oltre alla scoperta di tante realtà che altrimenti rimarrebbero ignote. E i cosiddetti cantautori?
Frugando nel web sembra esserci un’epidemia di artisti. Di autori capaci e musicisti altrettanto validi l’Italia è zeppa: persone che hanno talento e una sincera esigenza di raccontare e raccontarsi. Certo, ci sono anche quelli approssimativi o addirittura non dotati, che spacciano per poesia il primo pensiero scritto con qualche accapo alla rinfusa. D’altra parte siamo nell’epoca in cui tanti, troppi, si proclamano autori di qualcosa.
Ma non è a questi sedicenti autori e cantautori, attori di una specie di circo, che si dovrebbe guardare. Penso che gli artisti veri, anziché sulle piattaforme social, andrebbero cercati nei piccoli club, nei teatrini da trenta persone, armati di pazienza e grande curiosità, in quanto siamo sommersi da tanta “immondizia musicale”, per citare Battiato, e fanno veramente tanta fatica a mostrarsi ai più. Insomma, c’è anche un problema di occasioni e opportunità per questi nuovi cantautori, che non hanno spazi per farci sentire le loro opere. Mi rendo conto di essere leggermente fazioso.
Però, tutto oggi sembra dover approdare sui social, pena non essere accaduto realmente.
Il mercato discografico è un cumulo di macerie, la società si è liquefatta e i rapporti umani sostituiti da questi strumenti. Anche le cosiddette star hanno compreso l’importanza di stare sui social, simulando l’abbattimento delle distanze col proprio pubblico: qualche post inutile alla prosecuzione della specie umana e qualche risposta distratta in forma di commento, solo per dire «anche io penso e sono uno di voi, siamo sullo stesso piano».
Cambiano i tempi e soprattutto la tecnologia, molto meno l’individuo, che oggi appare quasi cretino, ma in realtà soffre dello stesso bisogno di mettersi in mostra e della stessa ingenuità di sempre; semplicemente, prima passava un bigliettino sotto il banco di scuola a un compagno o scriveva banalità su un diario, oggi lo fa mediante i social network, arrivando al compagno e ad altre mille persone. È importante sottolineare che allora faceva quelle cose in età adolescenziale, oggi le fa in età adulta: è questo a renderlo ridicolo. Persone lobotomizzate dalla tecnologia.
Uno dei segnali che indica come io non mi sia mai conformato a questa società social è che comunico ancora con le e-mail, non uso le emoticon nei messaggi e credo fermamente che i puntini di sospensione non servano per decorare e sono sempre e solo tre. Non ho nemmeno Whatsapp. Benché a un certo punto il telefonino abbia dovuto sostituirlo e ora non ha più i tasti, lo utilizzo solamente per le telefonate classiche.
Mi pare che la comunicazione che ha preso piede coi social — e Whatsapp vi rientra appieno —privilegi l’idiozia, ignori l’intelligenza e scordi l’educazione; ma soprattutto, sia tutta volta all’esibizionismo di sé stessi, senza che si posseggano strumenti e competenze, a vantaggio della diffusione dell’analfabetismo funzionale. Preciso ancora che non è mia intenzione generalizzare la dinamica del fenomeno, pur ritenendo che una grossa fetta dell’utenza manifesti questa condotta.
Quando non ho proprio nulla da fare, mi capita di osservare le discussioni sui social e sembra che in tanti si sentano obbligati a partecipare ai dibattiti del giorno, affossando, giustificando o sostenendo le opinioni altrui, anche se probabilmente si tratta di argomenti che mai avrebbero scelto di affrontare, semplicemente perchè gli ignorano nella vita reale. Forse lo fanno per esercizio dialettico, quasi compulsivo, ma fondamentalmente credo che il più delle volte sia un comportamento puramente narcisistico. È come se una persona assistesse a uno spettacolo teatrale e poi bussasse al camerino dell’attore esclusivamente per criticarlo e demolirlo, cosa che fortunatamente non avviene nella realtà. Nel quotidiano, quando c’è qualcosa che non ci interessa ci occupiamo di altro e, se non ci piace, molto probabilmente ne parliamo al massimo con un amico, se mai dovesse saltar fuori l’argomento. Il fatto è che la libertà di opinione, con l’avvento dei social, si è trasformata in una beffa e questa mia scoperta è sorretta dal mio esperimento sociologico su Facebook. Altro aspetto negativo è che si riversa molta gente che ringhia sui tasti, ma, nella vita reale, probabilmente scodinzola e lecca il culo al padrone.
Quindi, in fin dei conti, anche se ciò è inquietante, Facebook ha contribuito all’emersione di tutto il razzismo latente delle persone che, nella vita reale, tendevano a celare. Ho avuto modo di sperimentare di persona tale comportamento quando ho pubblicato “Il pescatore secondo Matteo”.
Il risvolto positivo è che questi personaggi si svelano in tutta la loro meschinità, proprio come sosteneva la mia amica della Primavera araba.
Ma i cantautori? Loro, quelli in ombra, continuano a scrivere, a comporre, a cercare musicisti che credano nel loro progetto, a pagarsi lo studio per le registrazioni, a comprare e a cambiare da sé le corde della chitarra, a realizzare il materiale grafico per la promozione e la distribuzione, ad acquistare la strumentazione, a girare i videoclip elemosinandoli a qualche conoscente, ad autopromuoversi, ad autoprodursi, a farsi scattare qualche fotografia, a simulare indifferenza per il successo, ad accettare di aprire una pagina social nonostante l’evidente inettitudine, a organizzare da sé infimi live, a discutere con gestori rancorosi, a stuzzicare critici e giornalisti perché parlino della loro musica, e, contemporaneamente, a guadagnarsi il pane per vivere e a pagare tutte le spese che la loro scelta bizzarra, quasi un vezzo, comporta. E magari devono accontentarsi di godere per qualche like su una canzone condivisa su Facebook, messo da chi non è nemmeno detto che l’abbia ascoltata in maniera adeguata. Oppure, questi — i cantautori in ombra — si convertono alle cover per proporsi nelle pizzerie i venerdì sera di provincia. Ma tutto ciò è in linea con quest’epoca, a parte l’anacronismo dei sedicenti cantautori. Ma non generalizziamo.

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