_INCONTRI E PALCHI DEL FESTIVAL DEI TACCHI

INCONTRI E PALCHI DEL FESTIVAL DEI TACCHI

Ho il desiderio di un teatro che ci guardi negli occhi e che ci ascolti, di una drammaturgia che nasca dall’indagine e trasferisca sulla scena la testimonianza di chi vive. So di condividere questo desiderio con molti altri artisti che resistono spontaneamente alla seduzione dell’autoreferenzialità per arrendersi con gioia a un teatro che ama osservare più di quanto ami farsi osservare. Diamoci occasioni per spostare il baricentro: dal virtuosismo al contenuto, dal grande teatro a una comunità che si riunisce.
(Giuliana Musso)

Ci sono facce, voci, occhi stanchi che si arrendono a fine giornata, parole, canzoni e poesie che appena smontati i palchi del Festival dei Tacchi mi tornano in mente. Penso a tutti i ragazzi e le ragazze della parte organizzativa e logistica, ai preziosissimi tecnici, a chi si è affaticato a dismisura per rendere possibile un simile cartellone di spettacoli, alla gentilezza e al sudore, alle transenne posizionate sotto il sole a picco, ai volontari di Emergency dietro al banchetto, ai fari puntati prima di cominciare, ai biglietti da staccare con file interminabili di persone, ai ragionamenti colti, alle cazzate, al vino e al mirto, ai pasti consumati a tarda notte — quando non era chiaro se fosse più la fame o il sonno —.
E penso ai tanti incontri, per altro inusuali, perché ogni artista, donne e uomini, cercava di assistere agli spettacoli dell’altro, per poi parlarne, complimentarsi, chiedere, confrontarsi, appena sceso dal palco. Io, nella mia impercettibile esperienza da cantautore, sono abituato piuttosto ad ambienti da galli da combattimento.
A pranzo e a cena, nella lunga tavolata del Rifugio riservata a quelli del Festival, si mischiavano attori, fonici, organizzatori, giornalisti, addetti stampa, fotografi, clown, grandi musicisti e un piccolo cantautore, e nascevano belle chiacchierate su temi importanti inerenti le migrazioni, i teatri in giro per l’Italia, sulla possibilità che il fascismo potesse rinstaurarsi in Italia — sul sospetto che tale processo fosse già avviato —, sull’imminente caduta di questo misero governo, sulla drammaturgia, sull’ecologia, su quanto fossero belle le maschere tradizionali dell’isola, sulla mostra di Maria Lai alla Stazione dell’Arte, sullo spettacolo delle capre sui diruppi, sull’ironia tragica di Georges Brassens, su dove si potessero acquistare i coltelli sardi, su quale fosse la strada per andare al lavatoio di Ulassai e quella per Gairo Taquisara, sul periodo migliore per potare il corbezzolo e se i frutti fossero velenosi (anche se non è pianta velenosa, i frutti usati in abbondanza possono causare dei disturbi tra i quali una specie di ebbrezza, NdR), sulle seadas — uno dei migliori dolci, secondo Marco Baliani —, però, sia chiaro che quando se ne deve ordinare soltanto una, si chiama seada, senza la s finale… e non c’è da stupirsi che qualcuno dica sebada o sevada.
Il senso di comunità che il gruppo Cada Die ha costruito nel territorio ogliastrino in questi vent’anni di Festival è un capolavoro artistico e sociale. A quelle donne e a quegli uomini dico grazie e merda merda merda.
Penso al momento in cui è terminato lo spettacolo di Baliani, quando ho posato la chitarra e mi sono acceso una sigaretta liberatoria. Mentre il pubblico si alzava in piedi io mi aggiravo in prossimità del palco, dissimulando imbarazzo mischiato a orgoglio. Una bella donna mi ha salutato e fatto i complimenti perché la musica — ha detto — sembrava cucita sul testo. Quella donna, ma questo l’ho capito solo dopo, quando me l’ha suggerito la mia compagna, era Giuliana Musso. Ritengo di essere affetto da prosopagnosia, disfunzione cognitiva che spesso genera gaffe, equivoci e altri piccoli danni sociali.
Le stelle dell’Ogliastra, in quei luoghi circondati dai Tacchi, sono legate con un filo di lana che corre nel cielo, fin sopra il mare. Io credo che una stella, una in particolare, porti il nome Giuliana Musso.
L’ultimo brindisi, proposto da Marco Baliani, agli incontri, l’ho fatto alzando il bicchiere col cannonau di Jerzu etichettato, per l’occasione, 20° Festival dei Tacchi, a un temperatura — a dire il vero — troppo elevata. Credo di aver detto pochissime cose per via dell’enorme mole di parole ed emozioni che avevo aggrovigliate nella testa, nonostante Giuliana Musso avesse lasciato appositamente un posto libero fra me e lei, «Così, tu e Marco potrete parlare».
Appena smontati i palchi del Festival dei Tacchi si torna a casa, si disfa la valigia e i teatranti si imbarcano per altri luoghi. Per quanto concerne me, riordino le note sparse appuntate nel diario, gli spartiti, e faccio raffreddare leggermente le bottiglie di vino che ho comprato (una la berrò con due amici milanesi che avevano acquistato due biglietti per il reading di Baliani pur sapendo di non poter essere presenti). Poi, come capita a chi scrive canzoni, ho liberato la chitarra dalla custodia e ne ho abbozzato una, suggestionato dall’opera di Maria Lai: gli accordi e il testo stanno adesso sul leggio, a decantare, per farsi correggere, limare e imparare.

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