_LA MUSICA CHE VALE

LA MUSICA CHE VALE

La mia scelta di diventare cantautore non è stata programmata, deliberata o premeditata: è capitato, punto e basta, o punto e virgola. Poi, avendo scritto oltre 350 canzoni, evidentemente qualcosa da dire ce l’avevo. Le parole che ho usato sono state motivo di rovello, a differenza delle musiche, nate molto naturalmente, seppure non contengano niente di innovativo. Sono convinto che l’innovazione in campo musicale sia un processo estremamente lento e se da Bach ai Rolling Stones sono trascorsi più di 200 anni per vedere effetti tangibili, occorrerà attendere ancora un secolo o giù di lì. Oltretutto, non ritengo che l’innovazione di per sé sia un valore determinante per la qualità…
Ogni mia canzone è come il frutto di un parto della memoria, della mia memoria, alimentata dal vissuto e dall’ecosistema sociale in cui vivo, dei miei pensieri. Comunque — sia chiaro —, le mie canzoni non contengono tesi, altrimenti sarebbero oggetti filosofici.
Ho sempre pensato che le canzoni ben riuscite siano quelle che possono essere lette al di là dei fatti che le ispirano, ma questa — per contraddirmi — è già di per sé una tesi.

A cinquant’anni vorresti
una lunga aponia
come le rane di Chomsky
nel pentolone della vita
Se ci estinguessimo — ridi
dopo di noi
almeno le api
ne gioverebbero assai

Come ogni oggetto o espressione artistica, la canzone deve essere utile per qualcosa, che sia per rilassarsi, ballare, cantare, ubriacarsi, innamorarsi, farsi travolgere dalla malinconia o mettersi a pensare.
È un po’ laboratorio artigiano e un po’ magazzino il mio archivio cartaceo e digitale di pezzi composti o abbozzati dal 1990 a ieri l’altro. Ci si possono trovare versioni inedite, bozzetti, ipotesi di arrangiamenti, chitarre scordate, voci rauche, ripudi, provini che testimoniano fasi di lavoro preliminari o intermedie, accordi, sogni, brani rimasti nel cassetto o nell’hard disk, non perché peggiori di altri, ma perché non mi convinsero allora, perché troppo simili o troppo diversi dagli altri.
Io stesso sono la somma di tutte le canzoni che ho scritto più quelle che ho ascoltato e amato, ma il secondo addendo è numericamente molto maggiore del primo; costituisce una parte fondamentale del mio bagaglio culturale, quindi umano, frutto di scelte accurate. Però, il primo addendo, anche se inferiore, pesa di più nel mio vissuto, un po’ perché lo descrive e un po’ perché l’ha dettato in versi.
Le canzoni crescono e delle volte maturano con l’autore e il compositore che le concepì. Dentro di esse c’è la musica che ha amato, i maestri di riferimento, gli LP consumati e altre cose filologicamente rintracciabili nei solchi fra verso e verso, fra strofa e strofa, fra pausa e pausa.
Scriverne di nuove è deleterio: vanno a discapito di ciò che ho già ho fatto. E qualcosa di buono in 6 album mi pare sia venuta fuori. Solo il fatto di dovermi esibire dal vivo oggi sarebbe imbarazzante per me (cosa metterei in scaletta e cosa escluderei?) e per le attese del pubblico che si aspetterebbe forse “Abacrasta”. Ci sono quelli che vorrebbero sempre qualcosa di nuovo, anche se ogni canzone è di per sé nuova, e quelli che vorrebbero che le canzoni fossero immutabili nel tempo. Spero che prima o poi l’ispirazione mi lasci in pace, anche se in questi anni è abbastanza scemata e accomodante.
È comunque innegabile che la musica abbia bisogno di uno spazio intorno per espandersi e la canzone non viva di vita propria: necessita di essere ascoltata. Per questo, sono consapevole che la mia scelta di non fare concerti è suicida.

Cosa vuoi che resti
non resta nulla, un po’ di libri
rimane il dolore
e la musica che vale
Hai riscoperto gli Stones — dici
perdonato Céline
poi la sera è calata
e son diciottomila calate

Oggi si dice di ascoltare musica da YouTube, Spotify, TikTok. Un disco non sanno cosa sia e tanto meno cosa significhi acquistarlo (figuriamoci scriverlo, suonarlo, confezionarlo e produrlo!). Io su YouTube al massimo la musica la vedo per qualche minuto, come alcuni spezzoni di un concerto che i Deep Purple o Clapton tennero nel ’75, di cui magari in gioventù consumai l’LP o il CD. Oltretutto la ascoltano attraverso le casse incorporate degli smartphone: un inno al brusio. Se poi analizziamo la qualità del prodotto, perché di merce si parla, il livello è spesso infimo, ma è ovvio che non sia sempre così. È per questi motivi — ma non solo — che non ho più stimoli per continuare a produrre musica, anche se mi capita ancora di mettermi a scrivere con la chitarra sulla coscia; e continuo a farlo senza inseguire l’originalità, obbiettivo che, se forzatamente inseguito, può rendere le canzoni vuote e sterili, privarle dell’anima (la mia). Sarà cacofonico ma ogni passo che ho fatto l’ho fatto restando fermo.
I riscontri, alcuni autorevoli, che ho avuto da parte dei cosiddetti critici musicali e addetti del settore, sono stati sempre positivi, a parte uno, ma ogni cantautore ha il suo Bertoncelli. Aggiungo — dando sfogo alla mia frustrazione — che se, anziché stare seduti nel divanetto della TV o della radio mainstream a elogiare i soliti cantanti noti, i critici (mi riferisco a quelli blasonati e influenti) andassero in giro per locali o nel web, nei tanti canali youtube dimenticati da Dio e dagli ingranaggi discografici, ad ascoltare musicisti ignoti, allora sì che assolverebbero davvero alla loro funzione, contribuendo a lubrificare la macchina discografica ingolfata da decenni. Ma, a dire il vero, i critici musicali propriamente detti dovrebbero semplicemente analizzare le produzioni musicali, tutte, e invece, foraggiati e comodi nei loro sofà sponsorizzati, si prestano a una funzione paradossale di censura nei confronti di ciò di cui non parlano, cioè la maggior parte delle produzioni indipendenti. Così fa piacere, ma è allo stesso tempo vano e deleterio, sapere che “Filastrocca” sia stata candidata per le Targhe Tenco, perché ad ascoltarla sarà al massimo un decimo dei trecento giurati incaricati dal Club Tenco che, ricordiamolo, fu fondato nel 1972 per tutelare e salvaguardare la canzone d’autore, distinguendosi così dal Festival di Sanremo che alimentava, e tuttora lo fa, la voglia di canzonetta (molto, quasi tutto, è andato disperso e dissipato della missione che si propose originariamente Amilcare Rambaldi).
A reprimere i miei stimoli sommo, infine, il problema dei luoghi in cui poter proporre la propria musica: sono per la stragrande maggioranza inadatti all’ascolto e all’attenzione da parte del pubblico — considero solo quelli a cui un cantautore poco conosciuto potrebbe accedere — che, riferendosi alla canzone d’autore, sono condizioni al contorno indispensabili. Si tratta piuttosto di locali deputati alla somministrazione e consumo di alimenti e bevande che, quasi sempre, usano la musica come mero intrattenimento.
Quindi, è per queste ragioni che non ho più forti motivazioni per continuare a produrre la mia musica. Diverso è il discorso di scrivere e comporre, questione intima e non razionale.
Si dice che l’urgenza dello scrivere canzoni risieda nella necessità di aprire un canale di comunicazione con gli altri, ma non ne sono affatto sicuro: più che altro la necessità di comunicazione è con sé stessi. Urgenza o no, ogni tanto sforno qualcosa, che sia una canzone o uno spunto per un testo o un embrione di musica.
Per me scrivere canzoni non è una fiammata dello spirito che eleva l’essere umano in una dimensione mistica, in un vortice d’arte che gli avvolge corpo e anima; é una cosa semplice, come bere un bicchiere di vino o passeggiare, chiacchierare con un amico o guardare un bel film.
Non c’è un modo per fermare l’avanzamento degli anni e l’ineluttabile conclusione di ogni uomo (e donna), ma ho dei modi per ingannare il tempo: scrivere, leggere, approfondire, la musica, creare, amare, vivere.

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