_MARIA MADDALENA FRA MISSISSIPPI E TIRSO

MARIA MADDALENA FRA MISSISSIPPI E TIRSO

Forse i sogni sono i ricordi che l’anima ha del corpo.
(Il vangelo secondo Gesù Cristo, José Saramago)

“Maria Maddalena che piangeva nell’oceano” è una canzone che ho scritto nel 2008 e parla di una donna che ho immaginato sui trent’anni, probabilmente, ma non necessariamente, una prostituta, ritrovatasi sola e in stato di gravidanza. Il tema è quello del dolore intenso dovuto al trauma dell’abbandono, ma anche l’attesa della rinascita di sé stessi e della vita che si porta in grembo.
Lo scenario in cui si svolge la storia è una spiaggia. La donna lascia cadere lacrime sul mare, che nella canzone chiamo oceano, ma si tratta sicuramente di qualche località a me nota.
L’espediente narrativo consiste nell’immedesimazione di Maria Maddalena con la sua omonima descritta nei vangeli apocrifi e gnostici, l’amante di Gesù, ossia l’apostolo a cui voleva più bene, ma anche la meretrice, confondendo e mischiando il ruolo di amante con quello di madre. Nel delirio dei sentimenti in finale del testo della canzone, Maria Maddalena oltre a pensare di aspettare un figlio da Gesù, finisce col credere che quel figlio possa essere proprio Gesù: non è un’acrobazia teologica, bensì la licenza poetica di un piccolo scrittore di canzoni.
Musicalmente la canzone è rock-blues, guarda all’America, anche se la fisarmonica aveva lo scopo di riportarla dalla foce del Mississippi a quella del Tirso. I ruoli strumentali più importanti li affidai alla chitarra elettrica e alla batteria. Insomma, ci sono vari elementi di mescolanza e sbigottimento, indice di una sorta di stato confusionale dell’autore, che cita il Golgota e l’oceano, ma intende il Linas e Piscinas.
Il pezzo entrò a far parte del mio secondo album, Storie in forma di canzone, e fu designato per il mio primo videoclip, che decisi di ambientare nel teatro comunale del paese in cui vivo.
Abbozzai la sceneggiatura io stesso, ma finii per lasciar fare al regista e alle attrici-danzatrici.
Negli appunti leggo abbozzi di scena per le riprese: un leggio vuoto al centro del palco, inquadrature della platea vuota effettuate dal proscenio, primo piano su leggio solitario, una sedia vuota, riprese dal graticcio del palcoscenico, cicale (una specie di ossessione di quel periodo), attrici-danzatrici che fanno movimenti che non so, primi piani, ombre, piedi, una donna vestita a lutto, che rappresenta la solitudine, attrici-danzatrici rappresentanti la vita e la bellezza.
All’ultimo momento, un amico falegname mi propose di utilizzare le sue maschere, variazioni artistiche delle maschere tradizionali sarde, che richiamavano altre canzoni di quello stesso album; le maschere le avremo utilizzate anche nella presentazione-concerto del disco e in qualche altro live. Se non ricordo male, fu Silvia Bellu, artista e coreografa professionista, a immaginare la scena della mela infilzata dal tacco a spillo, che Pierpaolo Furcas, regista e produttore del videoclip, immortalò attraverso l’obiettivo della camera.
Al di là del risultato, che allora mi parve abbastanza buono, fu una bella avventura mettersi in gioco scansando la telecamera, ma anche un momento di ascolto e condivisione. Fu affascinante sentire le diverse interpretazioni che ogni partecipante dava del testo della canzone, esacerbando irrimediabilmente il disordine mentale dell’autore, soggiogato da Saramago, perso fra corde, poesia, fiumi, libri, maschere di pero selvatico e ossessionato dalle cicale.

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