_PIANURA DI SALE

PIANURA DI SALE

“Pianura di sale” è una canzone del mio periodo universitario, quando ero uno studente fuori sede e fuori corso, inghiottito dagli anni ’90 nella città di Cagliari. Per me, fino ad allora cresciuto in un paesino di provincia, quello fu un periodo molto proficuo e prolifico dal punto di vista intellettuale. Se la memoria non mi inganna, io e il mio amico fraterno Simone Simeone, nonché collega di studi, conosciuto come Ciaucciu, carlofortino autoctono, ci allenavamo al fancazzismo nella spiaggia del Poetto, in un pomeriggio di inizio primavera, io con la chitarra e lui con il bongo. Accennai l’aria di una canzone che avevo in testa, cantai qualche strofa, che raccontava alcuni episodi del vissuto di un pescatore, e gli chiesi di provare a tradurre taluni versi in tabarchino, variante del ligure parlata dagli abitanti di Carloforte e di Calasetta, nelle isole dell’arcipelago del Sulcis, nella Sardegna sud-occidentale.
Volendo fare il maestrino, azzardo una breve sintesi riguardo l’origine dell’idioma: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in particolare dalla cittadina di Pegli a ovest di Genova, attorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca, nell’odierna Tunisia; qui la comunità, unica enclave europea sulla costa maghrebina, prosperò per qualche secolo sviluppando anche un intenso commercio con le popolazioni del retroterra. Nel 1738, mutate le condizioni politiche, una parte della popolazione si trasferì in Sardegna, nell’isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi, e gli abitanti rimasti divennero schiavi e successivamente una parte di questa popolazione fu portata ad accrescere la comunità di Carloforte.
Tornando a “Pianura di sale”, ambientai la storia del pescatore proprio nell’isola di San Pietro, situata a una decina di chilometri dalla costa sarda, ma dove si respira intensamente l’aria ligure e si parla la lingua tabarchina.
I pescatori chiamano corda: drizza, scotta, cima, sagola, stroppo. Sanno che assuccare è lo stesso di cazzare, ma dopo aver lascato. E nel frattempo abbisciano i pensieri ormeggiati a terra con cime e gomene.
Scrivere canzoni è un atto che consiste nel mettere in fila le parole su un tappetto musicale, melodia e armonia. A volte arrivano prima le note dei versi, altre volte è il contrario, altre ancora si presentano miracolosamente insieme. La cosa più difficile è trovare il giusto equilibrio fra i due e con quella canzone mi pare di esserci riuscito.
Oggi, “Pianura di sale” è uno dei miei pezzi più noti e apprezzati, ma anche l’oggetto di uno dei miei sogni ricorrenti: una notte in un locale imbraccio la chitarra e comincio a suonare per attrarre l’attenzione del pubblico raggruppato nei tavoli, la metà del quale posto di spalle o di lato rispetto al palco. Mi faccio coraggio e, per rompere il ghiaccio, attacco con “Pianura di sale”, con andatura abbastanza vivace e ritmata, anche se in scaletta era prevista per ultima. Segue il battito di mani di alcune persone, per il resto il ronzio delle chiacchiere nei tavoli e il tintinnare di stoviglie del bancone sovrastano su tutto, anche sul mio imbarazzo. Dico «Scusatemi, ma non riesco a cantare davanti a un pubblico disinteressato e, visto che non avete voglia di ascoltare le mie canzoni, mi faccio da parte». Stacco il jack dalla chitarra e la ripongo nella custodia. Pochissimi si accorgono che ho concluso-abortito il concerto, troppo presi a raccontarsi la vita. Arriva il gestore, mi propone qualcosa da bere per abbonirmi e cerca di convincermi a esibirmi; non troppo discretamente sollecita qualche presente a incitare l’artista. Chiedo un bicchiere di vino, un buon Carignano, e rimango al tavolo con alcuni amici che mi avevano accompagnato, poi mi avvio verso casa, a qualche chilometro d’asfalto e tristezza.
Questo sogno desolato, che in qualche circostanza si è concretizzato realmente senza apparente possibilità di conforto, non rende giustizia al testo della canzone, che mi piace suonare come ultimo pezzo nelle esibizioni in quanto è un augurio di buona fortuna, per superare le tempeste della vita e attraversare indenni, o quasi, le nostre piccole odissee. Per quanto concerne la pronuncia dei versi in tabarchino, mi sono affidato in primis a Ciacciu, ma anche ad altri amici indigeni, compagni di qualche scorribanda studentesca, oggi invecchiati insieme a me. Forse ci incontreremo fra qualche anno sotto i ficus giganti della ciassa di Carloforte, nelle panchine dove gli anziani si ritrovano a discorrere del tempo, del mare che ingoia pescatori e scrittori, dei ricordi di gioventù e degli amori naufraghi.

Ora fuori dal mare, aspettando la tempesta
sulla riva tabarchina, sempre a pescare
a guardare i pesci grossi ingoiare i più piccoli
come gli uomini ingoiati dai cipressi
Quando il mare lo ingoiò
buona fortuna al pescatore
buona fortuna al pescatore

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