RESISTENZA E CANZONI PARTIGIANE
“Rossa per la fiumana di sangue versato, nera per il lutto dei milioni di morti. Questo è il colore della bandiera degli anarchici, che mai è stata ammainata, che raggruppa tutti gli uomini che amano l’umanità. Lottano per la libertà e combattono tutte le ingiustizie sociali, per questi nobili sentimenti che gli anarchici sono sempre stati diffamati, calunniati, torturati, perseguitati, incarcerati, assassinati in maniera ignobile, vergognosa, che ripugna la coscienza degli uomini. Gli anarchici vogliono vivere in una società umana e fraterna, senza stato, soldati, denaro, padroni, senza poliziotti, senza galere e senza sfruttatori. Dove tutti si lavora alla produzione di cose utili, e vivere veramente la nostra breve esistenza, senza odio, paura, preoccupazioni per il domani.
Ora e sempre, viva l’Anarchia”.
(Lorenzo Orsetti)
Lo spirito della Resistenza ha, in un certo senso, annaffiato la mia crescita, per quanto abbia sempre evitato di costruirci sopra un mito e di ripulirlo da tutte le miserie umane che una guerra, in ogni caso, comporta.
La Resistenza, ovunque venga praticata, in qualunque tempo e contesto storico, insegna a comprendere l’importanza di alcuni principi e valori: libertà, uguaglianza e solidarietà. Questi fari illuminarono il percorso guidando l’esperienza contro i franchisti durante la Guerra civile spagnola del ’36, come quella partigiana italiana al nazifascismo, a partire dall’estate del 1943.
Uno degli ultimi partigiani di cui abbia notizia è Lorenzo Orsetti, caduto eroicamente nel Rojava, in Kurdistan, dove stava lottando con grande amore per la libertà dell’intera umanità.
Non occorre specificare ed etichettare tutto e tutti, ma, visto il fango con il quale solitamente si ricopre la parola anarchia, lo dico esplicitamente: Lorenzo Orsetti era un anarchico.
Di resistenza e lotte di liberazione ho parlato in alcune canzoni: “Bella del fiume”, la cui protagonista è una ragazza arruolatasi con i combattenti anarchici nella Guerra civile spagnola; “Pin nel sentiero dei nidi di ragno“, liberamente ispirata a un romanzo di Italo Calvino.
I partigiani del ’43 sono stati raccontati da tanti scrittori, ma la narrazione che più mi ha convinto, tra quelle che ho letto, è stata quella di Beppe Fenoglio, estremamente lucida, senza sconti: Il partigiano Johnny è uno dei più antiretorici romanzi sulla Resistenza. Uscito postumo, si ipotizza che in quello scritto Johnny rappresenti la proiezione dell’autore. È la storia di un giovane studente, cresciuto nel mito della letteratura e del mondo inglese, che dopo l’8 settembre decide di rompere con la propria vita e di andare in collina a combattere con i partigiani.
Fenoglio sembra mettere in scena una sorta di dissacrazione dei valori civili della Resistenza, ma in realtà non fa altro che denudarla dagli orpelli affibbiati a essa per renderla mito e leggenda, inutili perché quell’esperienza mito e leggenda lo è stata realmente, in tutta la sua spontanea crudezza. Sarà destino dello scrittore, morto a soli quarantuno anni, accontentarsi di un po’ di notorietà da vivo e di un enorme successo solo dopo la morte, in seguito al rinvenimento degli scritti inediti e alla comprensione del suo universo poetico.
Oltre a questo romanzo, per ragioni simili, mi ha appassionato Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, anch’esso scevro di retorica e con una splendida scrittura, dove guerra e resistenza sono visti dallo sguardo di un bambino che vive con gli adulti.
Da antifascista convinto, il 25 aprile è una delle feste che sento maggiormente mia. E dire che nel 25 aprile del 1945 la guerra di liberazione dal nazifascismo non era ancora terminata, per quanto fosse il preludio della fine della dittatura con la liberazione della città simbolo di Milano. Quel giorno, Mussolini fuggì da Milano, in direzione Como, ma intercettato nei giorni successivi dai partigiani, il 27 aprile fu processato e fucilato a Dongo. A Dongo ci sono stato con un’amica e ogni scorcio del paese ci raccontava aneddoti riguardanti la fine del Duce.
Oggi qualcuno fa notare come si sarebbe potuta evitare la spettacolarizzazione della morte di Mussolini, quel dileggiamento in piazzale Loreto, in cui il suo cadavere, quello dell’amante Clara Petacci e di altri sedici giustiziati a Dongo vennero prima calpestati, sfigurati, sputati, orinati e successivamente, i sette più noti, issati per i piedi alla pensilina del distributore di carburante.
Quei comportamenti bestiali della folla non credo possano essere giustificati, ma bisogna pensare che la memoria dell’orrore fascista era allora onnipresente, ancora nell’aria, puzzava e bruciava occhi e gole, come un vento nero attraversava campagne, paesi e città brulicanti di croci e di simboli delle tragedie perpetrate dal regime. Per comprendere piazzale Loreto bisogna tornare indietro di un anno, quando la brigata fascista Muti, coacervo di criminali abilitato dal regime fascista, tra il ’43 e il ’45 metteva in pratica orribili torture. Il suo marchio di fabbrica era “la tortura del cassetto” in cui, in una caserma milanese, ai sospettati di cospirazione partigiana venivano schiacciati i testicoli dentro una cassettiera. La mattina del 10 agosto del 1944 alcuni uomini della Muti fucilarono in Piazzale Loreto i ragazzi prelevati da San Vittore e poi, come se niente fosse, si misero a giocare a calcio, usando a un certo punto, per scherzo, la testa di uno dei ragazzi uccisi. Ai genitori delle vittime non fu permesso avvicinarsi e i cadaveri furono lasciati esposti sotto il sole tutto il giorno, coperti di mosche ed escrementi, affinché l’orrore e il fetore si imprimessero per sempre nella memoria civica milanese, su preciso ordine di un capitano delle SS, detto “il Boia”, che dopo la guerra venne arruolato dai servizi segreti americani e visse ricco e beato in Germania fino a novantatré anni.
Un amico bolognese (col quale nelle scampagnate di fine aprile, seduti sull’erba fredda, folleggiando facciamo piani per far saltare i ponti sui rii campestri che circondano il paese, mentre un altro compagno si ingozza di uova sode e birra acidula) mi ha detto che davanti a suo nonno partigiano fu squartata la sua giovanissima fidanzata incinta e gettato via il feto… Il 25 aprile del 1945 la ferocia inaudita della guerra era impressa negli occhi e imputridiva nelle ferite infette di tante persone, ed è così spiegato perché il cadavere di Mussolini venne appeso in Piazzale Loreto: come un atto di liberazione e salvezza, più che di vendetta. L’unica giustificazione che mi sento di dare è che la guerra, qualunque guerra, disumanizza.
Sebbene oggi non esista più il fascismo propriamente detto, come spiegava Pasolini, contribuire alla marcescenza di un’Italia che “marcisce in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo, è esso oggi il fascismo”. Oltretutto, i fascisti continuano a esserci e a mettere in scena i loro simboli nostalgici. Per questo la Resistenza, seppur con altre modalità, serve che sia sempre presente e attiva nella società civile. L’antifascismo, dal mio punto di vista, è un dovere, e io provo a mantenerlo vivo attraverso piccoli gesti quotidiani e con le canzoni che scrivo, perché provare a leggere la società rientra fra le responsabilità della canzone d’autore.
Una canzone recentemente imbastita, il cui testo con gli accordi è ancora sul leggio per farsi assimilare e imparare, è “Il partigiano di Fenoglio”, che si ispira liberamente al romanzo citato e gioca con quella invenzione linguistica, mettendo in mezzo anche “The partisan” di Leonard Cohen.
Al campanile del villaggio
battono le ore
armi magre, come il cibo
neve ferma sui sentieri
è cambiato tutto ieri
I’ll go on to the end
un’idea di ribellione
nessun’altra soluzione
Ogni tornante un agguato
freedom soon will come
then we’ll come from the shadow
che ne resti almeno uno
di partigiano o qualcuno
a sfilar sugli strapiombi
della misera umanità
a difender la libertà
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