_SCAMPOLI D’UN GIROTONDO

SCAMPOLI D’UN GIROTONDO

Nelle mie canzoni c’è stata fin dall’inizio quell’umanità che vive ai margini della società per proprio volere o, più spesso, perché costretta, a causa della propria condizione di debolezza, da un potere occulto o palese.
Nel mio terzo lavoro discografico, Girotondo, misi quella narrazione al centro, escludendo per una volta la controparte, la maggioranza (per lo meno nei paesi occidentali). Così inscenai il teatrino quotidiano di senzatetto e zingari. Feci una cernita accurata di tutto il materiale inedito che avevo fino ad allora e moltissime canzoni rimasero fuori per necessità di sintesi a cui, nella produzione di un album, bisogna adeguarsi.
“Anima di vento”, canzone che molti anni fa ottenne una coppa per il miglior brano in un premio intitolato a De André, è una canzone che un giorno vorrei pubblicare.

Poserò un pensiero sopra ogni foglia
ché un soffio di vento lo porti via
cucirò il tetto su uno straccio di stelle
affinché il cielo sia casa mia
stingerò i denti nelle notti d’inverno
e scaccerò il gelo con un foglio di via
imparerò a imparare entrandoci dentro
benedetta libertà come buffo di vento

Fra i diseredati, un posto di riguardo l’hanno sempre avuto le prostitute, fondamentalmente donne costrette, ricattate e sfruttate per vendere piacere agli uomini: la prostituzione è l’emblema di una schiavitù mai estirpata.
Anche “Via della prostituzione” è dello stesso periodo, risale al ’95 o ’96, ambientata nella Cagliari notturna che corre sotto i viadotti rasentanti la laguna.

Nella strada sotto il ponte
castrano castagne
il protettore è circospetto
c’è una disputa fra due compagne
Nella strada sotto il ponte
le nere incantano la notte
hanno sguardi languidi
vendono il corpo a furia di botte
La strada sotto il ponte
lambisce la ferrovia
è la più bassa tentazione
via della prostituzione

A proposito di meretrici, “Eva che esce dalla notte” la scrissi nel 2010.

Eva esce dalla notte
dipinta nell’oscurità
coi contorni chiari
disegnati dai fanali
la sua barca va
naviga su altre rotte
senza alghe morte
solca la malasorte
coi capelli ti lega
come una fascina
per tenerti stretto
col fiato nel petto
e vorresti amarla veramente
ti vorresti naufrago nella burrasca
vorresti salvarla dal disastro
per salvarti finalmente

Foto di Andrea Sanna

“Un mendicante” nel 2014 diventerà, in seguito a una riscrittura, “Il Gallo canta”, canzone chiave di Girotondo. In questo disco, per quanto concerne la parte grafica, cercammo di raccontare il disagio della miseria anche attraverso la fotografia e mi spiazzò vedere il sorriso di una madre immortalata dall’obiettivo furtivo del fotografo. La produttrice, che aveva il compito di selezionare l’immagine di copertina, scartò quello scatto per pudore, perché non trovava giusto che quella donna fosse riconoscibile. Condivisi quella decisione.
Col senno di poi, mi rendo conto che quel lavoro sarebbe dovuto essere per lo meno doppio, per dare voce ai tanti personaggi che popolano il mio immaginario di scrittore di canzoni, che tanto mi attraggono e ispirano, forse perché in loro la condizione umana è tristemente evidente, come uno schiaffo. Le diseguaglianze sfilacciano irrimediabilmente il tessuto sociale, mettendo da una parte i detentori di ricchezza e dall’altra i poveri; e se nella prima spiccano i privilegi, nella seconda la mancanza di diritti.
Le canzoni non possono arginare queste vergognose ingiustizie, né indifferenza e razzismo, ma nel loro piccolo, raccontando storie, le mettono sotto i riflettori, quindi ci provano.
Se non ricordo male, Tiziano Terzani parlava di una società che mette a disposizione tante gabbie per piccioni e ciascun membro decide quale occupare, chi per fare l’avvocato, chi il banchiere, chi il funzionario, etc. In questa società di uomini e donne che diciamo liberi non siamo mai stati schiavi come ora, aggrappati e impiccati alle vane ambizioni di potere e del far quattrini, scordandoci di vivere. In questa visione paradossale, la libertà è quasi irraggiungibile sia dai benestanti, dietro le loro sbarre, che dagli umiliati, fintamente liberi di andare. Borghesite fu il termine che utilizzò De André per storpiare Borghesia: “infiammazione acuta del desiderio di avere, che può condurre all’aberrazione”. Molti esseri umani cercano di ammalarsene e si contaminano a vicenda, pagando chi già ne è affetto per farsi trasmettere il virus. I poveri sono esclusi anche da queste dinamiche, vaccinati dal destino, immuni, che impediscono la diffusione eccessiva della malattia, così l’epidemia rimane circoscritta a pochi individui. Chi regge i fili non intende in alcun modo rischiare che quelle persone — i poveri, gli esclusi, gli ultimi, i reietti — scalino qualche gradino nella scala sociale che conduce alla ricchezza, fortezza inaccessibile ai più. Però il potere ha bisogno di povertà ed emarginazione, e si serve del capitalismo per generarle e modularne il livello.
L’ultima canzone che ho scritto, nei primi di dicembre, si intitola “Ruggine” e lascia che un clochard, parlando in prima persona, descriva il suo misero universo quotidiano, nel quale inventa un passato romantico per invogliare la misericordia dei passanti: è un’altra parte residua di una pezza di Girotondo.

Guarda queste mani
hanno più anni degli anni miei
per quanto hanno lavorato
senza arricchirsi mai
arricchirmi mai
Non la vedi la mia corona
fulgente di metallo
una morsa alla testa
colano ruggine e pensieri
ruggine e pensieri
Sai, amo quella donna
e tutti i figli suoi
cresciuti bastardi là fuori
ai margini della città
ai bordi della città
In chiesa mi capita di andare
per il freddo o un tozzo di pane
alla ricerca di un bivacco
ma non ti ho incontrato mai
non ti ho visto proprio mai
Muoio e risorgo giornalmente
quando arriva l’aurora
tranne a volte in dormitorio
tra bevande calde e coperte
bevande e coperte

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