“Buon vento”, una canzone scritta il giorno della scomparsa di Fabrizio De André

11 gennaio 1999 – 11 gennaio 2019

– Mi racconti di “Buon vento”, la canzone che dedicasti a Fabrizio De André, del contesto in cui la componesti?
– La scrissi l’11 gennaio del 1999, appena appresi la notizia della scomparsa di De André. Allora abitavo in Stampace, uno dei quattro quartieri storici di Cagliari, un tempo abitato da artigiani, mercanti e dalla piccola borghesia cittadina, ma già all’epoca in cui mi riferisco frequentato e vissuto da studenti universitari e operatori del vicino ospedale civile. La finestra della mia camera distava quattro metri al massimo da quella di Alma, una prostituta albanese, per cui c’era un via vai di giovani ragazze, spezzato a volte dall’irruenza del magnaccia indigeno. Venti metri più giù dalla palazzina dove abitavo, nell’incavo delle pareti dell’ex cinema dei gesuiti, si era stabilito un clochard che soprannominai “Barba bianca”, in un giaciglio di stracci e cartoni. Poco più in là, dove si sentiva il profumo del porto, vagava una donna che si vestiva con buste della spazzatura; nel bar sotto il balcone della mia camera trafficava il politico affetto da arrivismo compulsivo. Insomma, c’era a portata di mano un vasto campionario di umanità, di quella di cui ci parlava De André, che nel tempo misi in musica. Però, la canzone “Buon vento” non è dedicata né parla di Fabrizio De André, bensì di me, delle mie sensazioni appena appresa la notizia: fu la prima cosa che feci quando i miei coinquilini, accesa la piccola televisione nella cucina comune, come a voler dimostrare la fondatezza dell’informazione, mi dissero della morte di Fabrizio De André. La scrissi istintivamente, di getto, forse in venti minuti, ed è tutto sommato un condensato di emozioni e immagini risalenti a quel preciso momento. La registrai artigianalmente qualche anno dopo e la inserii in una demo tape — allora si usavano le audiocassette — con altre canzoni di quel periodo, che un amico, fuori corso più di me, duplicava e vendeva in mensa e nella casa dello studente. Fu il mio primo discografico. Anni dopo, nel camerino di un teatro, la feci sentire a Don Andrea Gallo, che la apprezzò; parlammo di quei versi e di altri che egli scrisse sotto forma di lettera a De André, suo amico fraterno.
Riguardo la mia canzone, dopo averle confezionato un abito musicale, nel 2013 la inserii nel mio secondo album, Storie in forma di canzone.
Preciso che, essendo trascorsi vent’anni dai fatti di cui racconto, mi appello alla teoria di Bart D. Ehrman riguardo l’alterazione dei ricordi, quindi, quanto detto potrebbe non corrispondere esattamente alla realtà, nonostante situazioni e avvenimenti appaiano nitidi. Da qualche parte dovrei avere anche una pila di quotidiani di quella giornata: alcuni versi li annotai in una pagina del Manifesto, sempre che non si tratti di un’alterazione.

– In quel periodo, fino ai primi anni 2000, militavi in una band di combat folk?
– Non so se facessimo propriamente combat folk. Ci chiamavamo Suoni e rumori popolari e proponevamo pezzi inediti che scrivevo io; insomma, si usava quel nome per nascondere il cantautore.

– Tornando a “Buon vento”, mi risulta che non la esegui quasi mai dal vivo.
– In effetti, mi è capitato di suonarla non più di due o tre volte, solo voce e chitarra, e nell’ambito di iniziative e festival dedicati alla figura di Fabrizio De André. Insomma, l’ho riproposta solo in certe circostanze e con una veste minimale e intima, come i ricordi.

– Come mai questa scelta?
– Proprio perché non mi pare che sia una canzone di particolare interesse per il pubblico: dovendo ricordare e parlare di Fabrizio De André è decisamente più ragionevole mandare i suoi pezzi direttamente dai dischi, non il ricordo di uno studente fuori corso con velleità da cantautore.

[A.S., 2019]