Di un cantautore e d’altre storie: diario di bordo

Di un cantautore e d’altre storie: diario di bordo

Si intitolerà Di un cantautore e d’altre storie il nuovo lavoro discografico di Nicola Pisu. L’uscita è prevista per il mese di settembre 2022.
Grafica e copertina sono firmate dal grafico Carlo Murtas.
L’ingegnere del suono è Roberto Corda.
L’album verrà pubblicato solo in versione digitale (MP3 di elevata qualità e libretto con i testi).
Nell’attesa, abbiamo messo insieme un po’ di note diaristiche dell’autore, appunti e pettegolezzi, raccolti da gennaio a luglio 2022, che riguardano i collaboratori del disco.

Un importante critico musicale anni fa mi disse che oltre a saper scrivere buone canzoni, avevo la fortuna di potermi attorniare di splendidi musicisti, che spesso ad altri livelli di notorietà se li sognano. Rappresentò la canzone come un fiore: testo e melodia l’ovario e i musicisti i petali che formano la corolla.

Il primo collaboratore, quello che necessariamente comincia il suo lavoro per primo, ma che finirà per ultimo, colui che esegue registrazioni editing missaggio e mastering, è Roberto Corda, l’ingegnere del suono. Buona parte del processo di produzione, se si tolgono le fasi eseguite a distanza, sono state realizzate nel suo ROPECave Studio, a Serrenti, giusto per non allontanarmi più di tanto dalle strade che conosco da quasi mezzo secolo. Roberto — cosa che fece anche in precedenza — ha suonato pure la batteria e le percussioni in molte canzoni, preparando solchi per la semina e per gli arrangiamenti.

Sempre in termini di distanza, Teresa Furcas, la mia compagna di vita, è la voce narrante in “Passu passu” e “Pane per amore”.

Restiamo nei pressi della mia abitazione, dove il portone di fronte è quello in cui vive Massimo Piras. Fra vicini di casa possono nascere screzi e dissidi, ma nel nostro caso ci si è trovati da subito, accomunati dalla musica: i Rolling Stones e Lou Reed hanno fatto da collanti e garanti di aggregazione e buoni rapporti di vicinato. Capita che si scambino crostate al cioccolato con ciliegie di Norbio.

Uno di quei petali di cui si diceva all’inizio, col quale non avevo mai collaborato finora, è Matteo Muntoni, musicista poliedrico: bassista, compositore e sound artist con una lunga esperienza alle spalle e molteplici collaborazioni importanti, oltre al suo splendido percorso da solista, come ad esempio Radio Luxembourg.

C’è poi una colonna portante della mia musica, Andrea Cappai: suonatore di basso, chitarra classica ed elettrica, lap steel e tutti gli strumenti che gli capita di afferrare. Se non ricordo male, è da quando ho 17 anni che suoniamo insieme: fu lui a reclutarmi perché suonassi il basso nei LH, nonostante il mio strumento fosse la chitarra; poi ci scambiammo i ruoli. Prima di cominciare con le registrazioni mi ha chiesto chi fosse la Lola di cui parlo in una canzone. Maria Lai, gli ho spiegato. Andrea è un maniscalco di professione con un repertorio di giochi di magia, aggiusta e accorda anche pianoforti abbandonati nelle discariche. Qualche anno fa ha aperto a Serrenti un locale, il Blacksmith, che gestisce con la famiglia. Ipotizzò che un giorno potessi esibirmi lì, visto che organizza frequentemente piccoli concerti. Ma questo è un altro discorso…

Il termine ndelele, pizzico del violino suonato col plettro, fu coniato e sottoposto a battesimo da Pagani e De André, ma scopro essere anche il nome di una cittadina in Camerun. Il ndelele, più che uno strumento musicale, indica un modo di fargli emettere dei suoni, più ritmici che melodici. In questo mio nuovo album, il musicista addetto al ndelele è un suonatore di chitarra che conosco dalla fine del 1973, Marino Frau, e il ndelele in questione è un vecchio violino che appartenne a suo padre.

Michele Uccheddu, in arte altri nomi, abile percussionista e rumorista, nonché frequentatore dell’elettronica, ha curato alcuni sfondi delle canzoni da Vaasa, in Finlandia, nelle notti bianche — quando non fa completamente buio neanche a mezzanotte — e nel gelido inverno dell’Ostrobotnia.

Un altro musicista per me storico ed essenziale: il salernitano Giovanni Vicidomini. Ha studiato flauto e trent’anni fa ha cominciato la carriera in Campania, dove la sua ricerca ha sposato tradizione e modernità, spaziando fra diverse culture musicali e immergendosi, in particolare, in quella mediterranea. Suona inoltre la chitarra, la chitarra battente, il bouzouki, il mandolino, e innumerevoli strumenti a fiato ed etnici. È anche esperto di sintetizzatori, che utilizza insieme agli strumenti acustici. Alcune parti di violino, scritte da Giovanni, le ha eseguite suo figlio Alfonso Vicidomini; gli archi, sempre composti da Giovanni, li ha eseguiti la NOM – Nuova Orchestrina Med.

Francesco Cau, incontrato fortuitamente nei carruggi, è il chitarrista genovese che ho sequestrato e rinchiuso in studio perché eseguisse le parti di chitarra classica nella canzone col titolo palindromo e nel “Partigiano di Fenoglio”.

Alessandro Zizi lo incontrai qualche anno fa su un palco — insieme accompagnammo il cantautore Max Manfredi disceso nel cuore dell’isola —, dopo un pranzo conviviale e lievemente etilico. Entrambi improvvisammo, ma l’atmosfera era clemente e il vino rosso rubino. Poco dopo collaborammo insieme sulle tracce di una mia canzone su Grazia Deledda. Oltre a essere un organettista e fisarmonicista di lunga esperienza, che vanta notevoli collaborazioni, sembra sia anche un raffinato enologo che ama i vini che nascono da vigne su ‘piede franco’, ossia non innestate su piede americano. Con Alessandro Zizi tessemmo da quel primo abboccamento un’amicizia a distanza e in questo nuovo lavoro è il suonatore di strumenti musicali aerofoni con mantice che apre e chiude, e bottoni madreperlati.

Gianfranco Fedele è un altro della squadra che mi ha aiutando a produrre il nuovo disco: pianista e compositore, negli anni ’90 frequentatore ossessivo dei seminari di Siena Jazz, poi con Hanife Ana teatro jazz (quando ci conoscemmo), e altri mille progetti, da Snake Platform a quest’ultimo nel Mauro Sigura Quartet a disegnare nuovi orizzonti che per semplicità chiamiamo jazz. In passato ha arrangiato per me “Madre”, “Madame dei fiori” e “Monsieur il mago”. Stavolta ha lavorato a “Melton il sarto”, visceralmente e integralmente, confezionandogli l’abito e controllando ogni singolo punto, l’ordito del tessuto, motivi, drappeggi, svasature e sfondo piega. Qui la voce in faccia, come piace a noi cantautori, me la posso scordare.

Quando gli inviai le preproduzioni perché abbozzasse delle proposte di piano ed hammond, non avendo mai suonato con lui, non immaginavo che avrebbe tirato fuori queste tracce, così perfettamente in linea con le aspettative che nemmeno avevo. Parlo di Cristiano Sedda, entrato nella banda insieme ad altri indigeni serrentesi e un po’ di forestieri. “A un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso” scrisse Boccaccio.

Dalla Barbagia di Belvì, Enrico Poddie. Dice di avere un registro da tenore, ma ne ha tirato fuori quattro (Mesa oghe, Contra, Basciu, Sa oghe), come un pastore e le sue bestie. Inoltre, crea volti e maschere di castagno e ulivo alle canzoni.

Altro petalo che compone la corolla dei musicisti che hanno partecipato a questo album: Ignazio Cadeddu che, ironia della sorte, proviene da Assolo. Etnomusicologo, suona fondamentalmente la chitarra, ma non sdegna qualunque altro strumento a corde che spesso costruisce da sé con materiali di riciclo, utilizzando pezzi di legno, meccaniche di vecchie chitarre, scatole di latta (predilige quelle introvabili dei sigari cubani), cestelli di scarico del lavandino e ciotole per cani. Si muove disinvolto fra le sonorità etniche della Sardegna e quelle che Keith Richards immaginava a Dartford.

Carlo Murtas da un po’ di album è la matita che disegna le copertine e cura la grafica dei miei lavori, spesso realizza anche i videoclip di qualche canzone, ma stavolta si è superato prestando il suo ukulele.

Giustina Gambardella, percussionista e cantante del salernitano, ora in attività con i NOP (Nuova Officina Popolare), con una lunga esperienza di partecipazione a gruppi di musica popolare e non, fra i quali l’ensemble di Eugenio Bennato, ha curato e cantato le parti vocali di due brani strumentali e aperto il sipario dell’album. La sua creatività è seconda solo al suo talento e, fra le tante belle cose che ha fatto, cito la sua splendida rivisitazione della sigla dei Simpson.

L’amico Max Manfredi, il più bravo dei cantautori — a dirlo sono io, micca De André —, non ha certo bisogno delle mie parole per essere presentato. È uno degli ultimi cantautori dell’ormai estinta scuola genovese, ammesso che essa sia mai esistita. Forse sarebbe più corretto definirlo come il primo cantautore della nuova scuola genovese, ammesso che ne esista una. Di certo, definizioni tassonomiche a parte, Max Manfredi è uno che fa canzone d’autore, che scrive, canta e suona canzoni molto belle, che ha forgiato a sua insaputa una generazione di cantautori, compreso il sottoscritto, che genovesi non sono, ammesso che abbia qualche senso identificarli per provenienza geografica.

L’intagliatore di fate
incanta la gente
alla fiera della Maddalena
con corde di budello
e rime di Sampierdarena

In “Filastrocca” ha suonato e suggerito gli arrangiamenti Marco Spiccio, detto Maspi, il medico-pianista da sempre nella banda di Max Manfredi, collaboratore di innumerevoli artisti e a lungo socio del Club Tenco. Dalla sua casa-teatro sita nel quartiere della Foce a Genova, Maspi (che si narra abbia un senso commuovente dell’ospitalità) nel corso delle lunghe telefonate conoscitive mi ha confessato che, come me, detesta il sostantivo ‘cantautorato’, ma a ‘canzone d’autore’ preferisce il termine ‘canzone lirica’. Poi, mi ha chiesto cortesemente il testo del pezzo che gli avrei voluto proporre, un riassunto del tema trattato, ma anche il mio indirizzo, la data di nascita e il codice fiscale. Oltre che di possibili arrangiamenti mi ha inondato coi suoi gustosi aneddoti e parlato di cinema all’aperto, di critici, di Don Gallo, di computer sgangherati, di gonne quantiche, di misure musicali e di malattie infettive.

Per il cameo che mi ha donato Max è stato decisivo il contribuito tecnico dei Lady Lazarus, ossia Marcello Stefanelli, la cui fitta corrispondenza col tempo è maturata in grado di parentela, e Gabriele Santucci; il tutto reso possibile grazie al Vibrisse Studio di Savona. Stefanelli ha inoltre suonato, con tocco felino, le pause di tutti i brani dell’album.

Non so se i bravi musicisti che da sempre si dicono disponibili a partecipare alla vestizione delle mie canzoni lo facciano per stima nei confronti del cantautore, perché mi compatiscano o in quanto accecati dalla passione per la musica, patologia di cui sono affetto anche io; oppure per tutti e tre i motivi.

Ieri abbiamo inserito le ultime parti di fisarmonica e aggiustato le dinamiche dell’hammond. Ormai siamo agli sgoccioli, manca veramente pochissimo per poter passare alla registrazione della voce definitiva e partire col missaggio, ma in mezzo ci sono le mie chitarre. E allora, mi appresto a cambiare le corde cercando di ricordare alcuni trucchi per svolgere alla perfezione la delicata operazione. I nodi nella paletta non riesco proprio a farli, ma sporco di grafite i solchi del capotasto come suggerito dal fonico. Il suono delle corde di bronzo è brillante, ma la tensione è minima se confrontata alla mia. Sarà che da quasi un anno ci stiamo mettendo l’anima in queste benedette canzoni, e quando l’album sarà concluso finirà anche tutta l’euforia e il senso fittizio di libertà che abbiamo respirato a pieni polmoni.
Mi aiutano a concentrarmi gli Stones che si diffondono nella stanza e nell’aria della prima mattina dell’estate boreale. Penso che Richards farebbe a meno della corda più grossa, io decisamente no.

Per la registrazione della voce, Roberto dice che potrebbe procurare un costosissimo microfono a condensatore della Neumann, pietra miliare della registrazione in studio. Mi sento una stella del rock o una stellina in brodo. Comunque andrà, una volta ripresa la voce, l’ingegnere del suono procederà con editing e pulizie; poi si passerà al missaggio, dove la cura infinitesimale dei dettagli diventa il tutto, l’universo dei suoni entro cui vedranno la luce i nuovi pezzi.

Senza che i discografici mi stiano alle calcagna ipotizzo di poter pubblicare il lavoro a inizio primavera (data più volte procrastinata, NdR). D’altronde non ho i gendarmi appostati sotto casa come accadeva a Keith Richards (personaggio che da un po’ di tempo torna spesso nei miei pensieri).

A conti fatti — basta contare il numero delle tracce e la durata — e senza premeditazione alcuna possiamo dire che l’album sarà doppio, per lo meno, un vasto album. Credo sia un lavoro pensato più come una specie di opera che come una semplice sequenza di canzoni. Pertanto, sebbene non ci sia alcun fil rouge a legare i testi, qualcosa accade con le musiche.

Mi permetto di parafrasare Umberto Eco: tutti da giovani scrivono canzoni, come l’acne giovanile; poi, i bravi cantautori le distruggono e i cattivi cantautori le pubblicano e continuano a scriverne altre e altre ancora, finché morte non sopraggiunga. Io appartengo a quest’ultimo insieme.