Il mio canto legato alla terra: Laura Medda intervista Nicola Pisu su Saltinaria.it

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nicola-pisu-pg-gigi-cabiddu-brau-3Nicola Pisu racconta il suo canto legato alla terra, le sue ragioni di cantautore del nostro tempo, a pochi mesi dall’uscita del suo terzo album Girotondo. Nuova pagina, dopo Abacrasta e dintornie Storie in forma di canzone, di una sensibilità poetica sospesa tra memorie sognanti e tragicamente reali.

Nicola Pisu, essere un cantautore, oggi, cosa significa?
“Un cantautore, oggi come ieri e spero anche in futuro, è semplicemente colui che scrive delle canzoni e poi le canta senza affidarle ad un interprete. La definizione del genere canzone d’autore, risalente credo agli anni sessanta, in qualche modo contrappose la canzone d’intrattenimento a quella che affrontava tematiche non solo sentimentali e “leggere” ma anche di tipo sociale, se non addirittura politico. Ho sempre creduto che il cantautore, oltre ad interpretare le canzoni da lui composte, debba in qualche modo rispondere alla necessità di parlare non solo al cuore di chi ascolta ma anche al cervello, insomma offrire spunti di pensiero.”

Nel maggio del 2013 hai pubblicato il tuo secondo lavoro, “Storie in forma di canzone”. Nuova immissione nell’alveo della canzone d’autore, raccolta selezionata a posteriori di una serie di testi scritti tra il 1994 e il 2012. Il titolo di questo lavoro denuncia un’imponente presenza della parte testuale, i suoi contenuti la marcata tendenza narrativa dei testi che scrivi. In che termini descriveresti questa sorta di sbilanciamento?
“Nella canzone, a qualsiasi genere essa appartenga, testo e musica sono necessariamente relazionati e imprescindibili l’uno dall’altra. È questa una prima differenza tra le forme canzone e poesia, argomento nel quale non intendo addentrarmi. La musica di per sé può essere in grado di emozionare ma perché ciò accada, talvolta, non basta essere bravi musicisti. Il testo di una canzone può emozionare, raccontare, denunciare, esprimere concetti e volendo giudizi ma è pur sempre legato alla parte melodica e ritmica. È spesso la sintesi a stabilirne i confini oltre i quali non si può andare e da essa deriva la riuscita o meno della canzone. Attribuisco molta importanza al testo per una mia esigenza comunicativa di raccontare e descrivere, quindi lo sbilanciamento a favore del testo, in buona parte dei casi, è forse un obiettivo che caratterizza la canzone d’autore come da me concepita. Il vestito musicale invece nasce dalla mia composizione di una linea melodica principale e prende vita grazie alla collaborazione dei musicisti che poi suoneranno con me. Mi confronto molto spesso con loro, accogliendo di solito le soluzioni di arrangiamento proposte. Ritengo che una canzone, discorso valido per tutti i generi musicali, sia da valutarsi considerando l’insieme di testo e musica, proprio perché si parla di canzone e non di poesia”.

Le canzoni scritte e musicate per il tuo ultimo lavoro “Girotondo” appaiono come un richiamo fortissimo al senso dell’uomo. In questo tempo che vive il paradosso di una globalizzazione crescente a sfavore di un aumento delle nuove differenziazioni, queste tue canzoni hanno un risvolto attualissimo. In quali termini è da considerarsi, in questo senso, il filo conduttore del tuo ultimo concept album?
“‘Girotondo’ ha un filo narrativo che viene srotolato canzone per canzone.
Potrei rispondere che parla di emarginazione ma la risposta sarebbe incompleta. In realtà l’argomento emarginazione è sì il fulcro concettuale dell’album ma sono diversi i punti di vista dai quali la tematica viene osservata e raccontata. Non è casuale che l’album si chiuda con una canzone che parla di indifferenza. E proprio di indifferenza, sopraffazione e libertà ci parla “Girotondo”, partendo da alcuni ritratti e scenari di emarginazione. Nell’album si susseguono storie di individui che per varie ragioni sono relegati ai margini della società ma anche di gruppi di individui sopraffatti dal potere, depredati della loro dignità e identità, semplicemente perché considerati diversi e scomodi. L’argomento, per poter essere sviluppato  nella sua interezza, certo necessiterebbe di uno spazio maggiore ma quello concesso da un album di canzoni è decisamente stretto e la sintesi ha imposto delle scelte non solo artistiche. Credo che la tematica affrontata nell’album possa considerarsi decisamente attuale e di rinnovata drammaticità alla luce dei mutamenti sociali di questo nuovo millennio”.
“Girotondo” è soprattutto lo sguardo rivolto all’ orizzonte terreno della strada con il suo incessante movimento di passi. Assume talvolta le sembianze di un mercato di voci spiritualmente anarchico, di un cerchio di volti che spesso hanno la consistenza dell’ombra. La tua scrittura sembra voler restituire la presenza di questi volti, cosa ne pensi?
“Lo sforzo riposto nella scrittura dei testi aveva l’intento di rendere vivi i personaggi delle canzoni e di dar loro voce e corpo. Una sorta di risarcimento o tentativo offerto loro di potersi riappropriare di quei connotati umani sepolti all’ombra dei marciapiedi delle nostre città. In questo senso, le canzoni dell’album non volevano essere d’intrattenimento ma raccontare un po’ di quell’umanità diseredata che sopravvive ai margini della società”.

“Dimmi con chi vai accanto ai tuoi passi” è il verso del brano conclusivo dell’album e da qui sembra essere nata la scintilla compositiva del “Girotondo”. Le ragioni, insomma, stanno tutte in questa terra d’uomini, per questo motivo risulta in qualche modo inaspettato incontrare canzoni come “Favola metropolitana” o “Madame dei fiori”. I brani in questione assumono dimensione immaginifica, per quale motivo hai adottato questa modalità narrativa?
“La scelta della dimensione immaginifica è una delle possibilità offerte dalla forma canzone e consente di dipingere con colori vivaci realtà che forse andrebbero riportate in bianco e nero, o tutt’al più con scale di grigio. Così facendo, sarebbero meno visibili certi aspetti con il conseguente innescarsi di una sorta di ‘effetto mimetismo’. La rappresentazione immaginifica è invece un modo per scrollare un po’ di sofferenza da una storia o da un personaggio, imprimendo maggiore leggerezza al peso di questo vivere. In questo senso, anche la parte musicale può contribuire tantissimo, per esempio, giocando su ritmo, sonorità e armonia è possibile rendere una musica più o meno allegra o malinconica, anche se poi l’impatto è assolutamente soggettivo”.

Il tuo è un canto legato anche alla tua terra d’origine perché il primo lavoro, “Abacrasta e dintorni”, nasce dall’opera letteraria di Salvatore Niffoi. Raccontaci di questo incontro tra la letteratura e la tua musica, rivelatosi poi significativo anche negli altri lavori.
“Oltre alla musica, un’altra mia passione è la letteratura, quindi il fatto di farle incontrare è stato, non dico voluto, ma quasi inevitabile. Quando parlo di letteratura non faccio distinzioni tra appartenenza geografica di chi scrive e forma prescelta. Si tratti di versi o prosa, di un autore europeo o asiatico, poco importa, a catturarmi è l’intenzione unita all’estetica, alla poesia e alla bella scrittura. Nel caso di ‘Abacrasta e dintorni’, la scintilla compositiva nasce dal testo che dà il titolo all’album: ‘Abacrasta’ è liberamente ispirata al primo capitolo del romanzo ‘La leggenda di Redenta Tiria’ di Salvatore Niffoi. Nel 2008 inviai allo scrittore di Orani questo testo e poi ci conoscemmo personalmente. Fu lui stesso a suggerirmi l’idea di scrivere un concept tratto da quel romanzo, accolsi questo proposito, anche se poi l’impianto del lavoro riguardò anche un’altra sua opera, ‘Il viaggio degli inganni’. Questo attingere dalle pagine della letteratura ha caratterizzato la scrittura delle mie canzoni anche in altre circostanze, così è avvenuto per ‘Amore follia’, ‘Via di scampo’ e ‘Ombre’.”

Ritornerà, questo legame con la terra, nei brani “Di Barbagia” e “Acciaio e diavoli”. È questa l’occasione perché la tradizione non divenga immagine da esportazione dal fascino esotico ma racconto leggendario legato da ragioni profonde alla tua terra. Ti chiederei di aiutarci a conoscerle.
“Mi sento visceralmente legato alla mia terra. Sono sempre stato affascinato dalle sue tradizioni e leggende e nel caso di ‘Di Barbagia’ e ‘Acciaio e diavoli’ ho provato a raccontarle in musica, evitando la deriva folcloristica.
Entrambe le canzoni si rifanno a un saggio dell’antropologa Dolores Turchi che evidenzia alcune affinità tra certe credenze popolari sarde e i miti greci. ‘Di Barbagia’ racconta dell’Erchitu o Boe Muliache, un uomo che ha commesso una grave colpa e per sortilegio si trasforma in bue con corna d’acciaio. La seconda canzone parla invece della Filonzana, una sorta di Parca sarda, che tiene in mano il fuso e fila in continuazione un filo sottile, il filo del nostro destino.”

Vivere tra le strade strette di un piccolissimo paese sardo comporta una peculiare visione del mondo e un rapporto più stretto con la memoria. In che modo questa condizione di vita ha inciso nella tua poetica?
“Nascere e crescere in Sardegna ha sicuramente segnato il mio percorso umano prima che artistico ma credo che, anche se fossi nato da qualche altra parte, si sarebbe scatenato un simile meccanismo. L’aria che ho respirato e respiro, le persone che incontro, i paesaggi che vedo, i ricordi d’infanzia, i campi della pianura e il mare a due passi, tutti questi elementi hanno nutrito le mie radici ben salde in questa terra. Credo si tratti di una sorta di cultura mediterranea che sta dentro noi abitanti di Sardegna, quasi a livello genetico. Tutti questi aspetti popolano la mia memoria e dialogano con le mie esigenze espressive, filtrano nel mio essere scrittore di canzoni e musicista”.

C’è poi un altro tipo di memoria, in termini musicali, quella che ti lega alla tradizione cantautorale che ti ha preceduto. Una tradizione importante e incisiva nel panorama musicale italiano. E c’è una memoria poetica che respira accanto a molte delle tue canzoni, quella di Fabrizio De André. Quale ritieni sia il modo migliore di sciogliere questo nodo, che in alcuni casi appare vincolante per la tua espressione artistica?
“De Andrè è indubbiamente il mio maestro, probabilmente il più grande cantautore italiano, per quanto mi riguarda il più grande per capacità di pensiero e poesia. Davanti a questa tradizione, ho contratto un debito, in qualità di allievo cantautore, anche nei confronti anche di altri, come Guccini e De Gregori. Si rende comunque necessaria e doverosa una precisazione: la canzone d’autore non è un fossile, qualcosa di immobile da esporre in una teca e che si identifica esclusivamente con i suoi fondatori o maggiori esponenti. La canzone d’autore è anche quella del presente, che tra qualche anno sarà anch’esso passato. Il fatto che spesso, dopo aver sentito un mio disco, si facciano dei riferimenti alla scuola deandreiana, mi inorgoglisce ma allo stesso tempo è per me frustrante in quanto è come se si dicesse che si tratta di musica già sentita, solo un déjà vu. De André ha lasciato un segno tanto profondo da far sì che una parte consistente della canzone d’autore italiana, dopo di lui, venga ancora identificata come ‘canzone alla De André’. Penso che lui, come gli altri grandi del genere, non intendessero in alcun modo impossessarsene o segnarne la fine. Infatti, ricondurre gran parte del cantautorato al modello deandreiano, ritengo sia una piccola violenza al genere musicale, alla scuola involontaria da lui presieduta e ad egli stesso. Sarebbe perciò più opportuno pensare che la canzone d’autore viva in quanto seguito ed evoluzione di quella storia, senza attribuirle l’aspetto di un reperto archeologico. Sarebbe bello scoprirne i nuovi linguaggi, il senso di nuovi contenuti, la scelta di nuovi stili. Sarebbe un modo per non rinunciare a tutto ciò che i cantautori di oggi si propongono di raccontare”.

In questa tua storia di scrittore di canzoni, la memoria e la terra appaiono come radici tenaci della tua trama poetica. Ma c’è spazio anche per il sogno, possibilità altra per vivere e raccontare la vita, che si lega al canto con volo liberatorio. Se è possibile partire da questa considerazione, ti chiederei di raccontarci meglio che valore hanno per te il sogno e il canto.
“Il sogno è vagheggiamento di cose desiderate, speranze ed attese a volte irrealizzabili. L’utopia è invece un sogno inattuabile ma, giusto per fare due esempi, fino a poco tempo fa anche l’abolizione della schiavitù e lo sbarco sulla luna venivano considerate utopie. Per dirla con Bakunin ‘È ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non hanno mai avanzato di un solo passo’. Io mi nutro di sogni e quando queste fantasticherie mi appaiono inesorabilmente come utopie ne sento più forte l’attrazione. Il mio essere abbastanza pragmatico mi permette di non rifugiarmi nel mondo fantastico di un improbabile futuro. Nel mio piccolo, cerco soltanto di trasformare l’esistente affinché possa accogliere anche i sogni. E il canto è un modo di raccontare il sogno, o forse per me è esso stesso il sogno”.

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